Incipit del film di Jiheo Lee è un antico proverbio cinese, secondo il quale la vita è caratterizzata da quattro stati emotivi fondamentali: la felicità, il piacere, il dolore e l’amore. Da qui il regista americano fa nascere altrettante storie, i cui personaggi sono chiamati con i nomi delle emozioni del proverbio: Felicità (Forest Whitaker) è un impiegato di banca che non soddisfatto della propria vita tenta di cambiarne il corso, scommettendo su una corsa di cavalli truccata. Perso tutto, per restituire i soldi decide di rapinare la banca in cui lavora. Piacere (Brendan Fraser) è un gangster che attraverso il dono della preveggenza è in grado di compiere i propri crimini facilmente. Ma il dono che sembrava costituire anche la sua dannazione lo tradirà, spalancandogli le porte di un mondo che non conosceva. Dolore (Sarah Michelle Galler) è una giovane e acerba neo-popstar, orfana del padre, che per un debito insoluto viene spinta a firmare un contratto con il boss “Dita” (Andy Garcia). La giovane viene minacciata da quest’ultimo, nel caso non dovesse eseguire le sue indicazioni. Disperata, trova conforto tra le braccia di “Brendan Franser –  Piacere”, ma l’illusione dura poco tempo. E Dolore è costretta a scappare nuovamente. Amore (Kevin Bacon) è un dottore indotto dalle circostanze a cercar di salvare la vita della donna da sempre amata (Julie Delpy). La quale è però sposata, per uno scherzo del destino, con il migliore amico del protagonista. Per salvarla ha bisogno di una trasfusione di sangue rarissimo, e quando ormai sembra persa ogni speranza, il destino metterà in contatto la vita di Amore con quella della cantante Dolore, appartenente alla stessa categoria di sangue raro.

Film d’esordio del cineasta newyorkese, The air I breathe può essere considerato un noir atipico. In quanto seppur le atmosfere ne rievocano il genere, le storie lo richiamano solo in parte. La struttura divisa in episodi in cui le vite dei protagonisti si intrecciano, ricalca lo stile di noti cineasti quali Altman, Inarritu ed Haggis. Ma al contrario di questi ultimi, Lee non riesce mai ad uguagliarne l’eleganza, la sobrietà e il realismo. Uno dei punti più dolenti del film è proprio l’artificiosità, la mancanza di naturalezza con cui i personaggi dialogano fra loro. Spesso frasi emblematiche come: “le cicatrici sono la mappa dell’anima” o “le cose che non puoi cambiare finiranno per cambiare te” emergono dalle voci dei protagonisti come enormi cartelloni pubblicitari. Come se improvvisamente la vita degli attori si interrompesse, per comunicare messaggi che non possano in alcun modo essere veicolati dagli avvenimenti, ma che vadano declamati.

La sensazione di fondo che si respira è quindi quella di quattro storie che fanno da sfondo a massime sulla vita e non che queste siano incarnate nelle vite dei protagonisti: di questo stile a tratti estremamente didascalico ne risente anche la recitazione, del seppur notevole cast. Punto di forza del film resta comunque, nonostante la realizzazione non funzioni integralmente, il tentativo di dare un’interpretazione originale del rapporto tra l’uomo e i propri stati emotivi. Lee cerca di rompere quei rapporti di causa effetto convenzionali, che meccanicamente usiamo, nel tentativo di realizzare i nostri desideri. Come ad esempio Withaker (Felicità), alla fine del primo episodio, si libera di quello che fino ad allora pensava potesse renderlo felice, i soldi. E solo in quel momento, un istante prima di morire, il suo volto sembra finalmente assaporare davvero la felicità. Senza però alcuna apparente giustificazione. O Fraser (Piacere) che nel momento in cui la sua chiaroveggenza smette di proteggerlo, e si ritrova per questo preso a calci da un gruppo di gangster, lui prova un piacere che non aveva mai provato prima. A questo punto la domanda: perché piacere? Perché felicità in simili situazioni? Il regista ci lascia aperti sulla questione, nella speranza che la nostra interrogazione possa indirizzarsi anche verso quelle reazioni che siamo abituati a vedere come normali.

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