Sono pochissimi i registi rimasti in circolazione capaci di stimolare l’immaginario di svariate generazioni di cinefili soltanto con un trailer, in cui si iniziano a palesare i possibili frutti di un lavoro ancora in gestazione, come accade per il texano Terrence Malick. Fenomeno a parte di una stagione particolare del cinema e della cultura americana, eremita sfuggente al minimo tributo alle logiche propagandistiche del mercato artistico, invisibile icona di una alterità irriducibile ad entrare nelle troppo ristrette dimensioni dei magazine patinati. Come Salinger, Pynchon, è assurto nell’epoca del basso cabotaggio dei piccoli culti usa e getta a dimensione simbolica costeggiante il mito, cornice e figura della propria esistenza e della propria arte.

 Ora il frutto di molti anni di lavoro si è finalmente concretizzato nel quarto lungometraggio della sua carriera, The New World. Rielaborazione, piuttosto fedele almeno sul piano narrativo, della leggenda di Pocahontas, uno dei racconti fondanti l’identità culturale degli Stati Uniti. Il nerbo della vicenda è costituito dall’incontro tra la giovane, bellissima indiana, appena adolescente, con un avventuroso capitano della marina inglese, John Smith, interpretato da Colin Farrell. Incaricato di cercare rifornimenti per la piccola colonia di marinai appena fondata nel futuro Stato della Virginia, l’avventuroso ed irascibile capitano viene assalito e condotto da una feroce truppa di indigeni al cospetto del capo tribù. Il cui giudizio sarebbe inappellabilmente la condanna a morte se sul suo corpo non si gettasse implorante la sua giovane figlia, già irretita dallo straniero sofferente. In questa prima parte del film lo sguardo totalizzante di Malick riesce a trovare lo spazio adeguato per filmare in maniera davvero impareggiabile le battaglie senza feriti, le malattie, l’abiezione e la spietata vocazione allo sfruttamento da parte dei bianchi. Ma sopratutto si tratta di posare quell’inquieto e fluido occhio cinetico sui diversi approcci del genere umano all’incontro con l’altro da sé. Mentre il prigioniero Smith, vessato dal comandante, umiliato dai commilitoni, riabilitato per sradicare i nativi da quel lembo di terra, trova, dopo l’iniziale diffidente accoglienza, cibo, amore incondizionato e curiosità innocente, i suoi colleghi rimasti liberi nel campo si consumano in una triviale lotta per la sopravvivenza cercando quel fantastico Eldorado con pepite d’oro grosse come rocce che li aveva spinti ad intraprendere il rischioso viaggio. Voluttà, egoismo, spietata astuzia contro ingenuo umanitarismo e piattezza strategica. Questa seconda categoria di differenziazioni inizia lentamente a farsi largo non appena Smith torna dai suoi, rinfrancando con il racconto delle debolezze degli indigeni la voglia di conquista. I bianchi lentamente si stanziano, insediano su quel terreno inospitale le armi letali fornite dall’avanzata perizia tecnica, le tremende armi da fuoco contro cui né l’agilità né l’ardore possono nulla. Cadenze olmiane segnano il passo ritmico e filosofico della faccenda. Non le tremende bestie vengono uccise dai micidiali cannoni forniti da sua maestà Re Giacomo, ma gli ingenui nativi che non avevano creduto alla barbarica pulsione dei bianchi.

Arrivano anche futuri coloni sradicati in patria e pronti a trovarne un’altra in cui prosperare. Ed allora è davvero finita, la principessa vestita come una bambola è costretta ad apprendere l’utilità del tempo: acquisterà memoria e diventerà anche lei un animale storico, fino a morirne. Della colpa di aver creduto allo sguardo mellifluo di un capitano di ventura, pronto a tradirne la fiducia e ad umiliarne la regale predestinazione a proteggere il suo popolo. In questo scarto complicato si gioca la scommessa principale di questo film: sdoppiata la direzione di marcia, la posta in gioco diventa il mondo vecchio osservato dagli occhi di una vergine. Pocahontas giunge in Inghilterra, si prepara quasi un baraccone mediatico ante litteram per accoglierla, persino i sovrani vogliono osservare da vicino il frutto più prezioso delle loro conquiste. Si vira problematicamente verso tonalità melodrammatiche con eccessivo zelo didascalico. Lei non ha futuro nel vecchio mondo e del passato non ha mai pensato di dover serbare traccia. Affoga nel presente del brumoso mare del nord, mentre qualcuno aveva pensato di poterla ancora salvare dalla compassione e dal ludibrio.

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