Une fleur à la bouche di Éric Baudlaire

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INTERVISTA PARTE SECONDA

Questi due personaggi comunicano in modo molto intenso con o senza parole, si tratta di un elemento nuovo nel film, se lo confrontiamo con il testo classico di Pirandello che è sempre stato presentato come un dramma dell’incomunicabilità. C’è un legame forte e molto calore umano tra i due protagonisti, al contrario di quanto ci mostra la pièce originale di Pirandello.

Per me c’è un grande spazio di comunicazione proprio all’interno dell’incomunicabile, se così si può dire. Quando l’uomo con il fiore in bocca cerca di portare quest’altro uomo ad una certa comprensione del mondo, c’è una certa riluttanza o resistenza forse, è impossibile per quest’altro uomo capire esattamente ciò che gli viene detto.

Nonostante tutto, c’è qualcosa in questa esperienza che tocca il secondo cliente; quando alla fine guarda attraverso la finestra mentre l’uomo dal fiore in bocca si perde nella notte, nel suo sguardo struggente e melancolico si legge un cambiamento profondo. Non volevo fare un film sull’impossibilità di comunicare. Non ne va qui di un semplice scambio di informazioni tra un autore ed uno spettatore, ma di qualcosa che avviene, da qualche parte, negli interstizi fra una parola e l’altra. Questo è il tipo di cinema che mi interessa; un cinema dove succede qualcosa, anche se non è facile dire esattamente cosa abbiamo imparato, o cosa ci è stato trasmesso, ma lo elaboriamo inconsciamente, nella nostra mente. Nel film c’è un’enorme quantità di emozioni che passano da un personaggio all’altro al di là della mera comunicazione verbale.

Une fleur à la bouche ha una messa in scena molto rigorosa che si avvale della fotografia particolarmente sensibile di Claire Mathon. Potresti parlarmi della tua collaborazione con lei?

Claire Mathon, con cui lavoro da 10 anni a questa parte, è una delle migliori direttrici della fotografia che io abbia mai conosciuto. La sua capacità in una situazione come quella del mercato dei fiori a scegliere un certo tipo di inquadratura e a capire come può nascere una scena è impressionante. Claire lavora da sola, senza assistenti. Sulle riprese ci siamo solo io, lei e un tecnico del suono. Claire sa captare una realtà documentaria servendosi di lunghi piani sequenza in una maniera assolutamente unica, ma sa anche lavorare in un modo più convenzionale, come ha l’ha fatto durante le riprese in questo bar a Parigi, con due personaggi seduti per 35 minuti in uno spazio relativamente esiguo. Non si trattava di una situazione semplice dal punto vista della fotografia; c’è stato molto lavoro sul come impostare le diverse inquadrature per creare il senso dello spazio e del ritmo. Ovviamente il montaggio è stato altrettanto importante.

Il montaggio dal film è stato curato da Claire Atherton, una montatrice di fama mondiale con cui collabori da molto tempo, cosa ti ha apportato quest’ulteriore esperienza di lavoro con lei?

Une fleur à la bouche è uno dei tanti film che ho girato con entrambe le “Claire”, Claire Mathon e Claire Atherton. Com’è noto Claire Atherton ha montato per 25 anni i film di Chantal Akerman. Ho realizzato diversi documentari con Claire ma non avevamo mai lavorato insieme su un film di finzione, quindi questa è stata un’occasione molto speciale ed unica anche per me.  Sono felice di avere avuto la possibilità di fare questo tipo di lavoro molto diverso con lei proponendole delle riprese classiche di campo- contro campo che richiedono un tipo di montaggio completamente diverso rispetto al modo in cui si costruisce un documentario.Credo che il montaggio di Claire Atherton ha fatto funzionare qualcosa che forse non avrebbe funzionato cosi bene. Se il ritmo è cinematograficamente piacevole, credo che sia grazie al suo modo di montare la conversazione fra i due personaggi del film. Il montaggio della prima parte del film -le riprese documentarie in Olanda- è quello per cui Claire Atherton è conosciuta; dei lunghi piani sequenza di materiale documentario. Questo è il suo terreno naturale, almeno per quanto riguarda la sua collaborazione con me e con vari altri registi in questi ultimi anni. Di fatto pero è anche una montatrice di dialoghi estremamente capace; si tratta di un tipo di lavoro completamente diverso in cui bisogna prendere in considerazione la sceneggiatura e il testo che deve essere rispettato.

Per chi conosce Parigi, l’ambiente del bar è molto familiare ma allo stesso tempo anche prezioso, accogliente come uno scrigno, un po’ fuori dal tempo. Come hai lavorato sull’ambientazione del film?

Fondamentalmente abbiamo dovuto cercare un equilibrio tra il contemporaneo e lo storico. Il testo di Pirandello è del 1922, quindi ha esattamente cento anni! Con Anne-Luise Trividic abbiamo deciso di preservare una certa storicità nella sceneggiatura della pellicola. Una possibilità sarebbe stata quella di creare dei dialoghi completamente contemporanei usando delle parole del linguaggio comune di oggi.  Avremmo potuto adattare il testo di Pirandello in questo modo ma abbiamo deciso fin dall’inizio di lavorare con la sua natura letteraria e un po’ datata. Un testo storicamente datato viene dunque riproposto in un contesto contemporaneo, mentre le immagini delle rose in Olanda sono assolutamente contemporanee. Gli elementi visuali del film, i costumi e le location erano finalizzati a far fluttuare questo testo in un contesto temporale ambiguo. Credo che questo si veda particolarmente nel modo in cui l’immagine è illuminata e nel tipo di bar che abbiamo scelto. Quella del film non è un’atmosfera del tutto contemporanea, ma fluttua tra le epoche.

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