Anche se tratto da un fatto reale, l’itinerante intervista di David Lipsky a David Foster Wallace, “The end of the tour” non è e non vuole essere una biografia. Non è un tributo ad uno degli scrittori americani considerato tra i più grandi della sua generazione. Non è neppure la storia di un’amicizia.
E’ invece, o può essere considerato tale, il testamento postumo di una mente geniale e contraddittoria, arguta ed ingenua.
Il viaggio – puntuale metafora della scoperta di sé – in cui Lipski accompagna Wallace a promuovere il suo libro, in breve si trasforma da pretesto utilizzato da un soggetto per ottenere informazioni su di un altro, a messa a nudo delle proprie schiavitù, delle rispettive e più o meno interagenti nevrosi.
Infinite Jest, l’opera-capolavoro di Wallace, del quale il film di Ponsoldt ha il merito di incentivare la lettura a chi ancora non lo avesse fatto, è principalmente un libro sulla paura e sulla dipendenze che da essa derivano. Tossicomania, teledipendenza, narcisismo, ipercompetitività, fobia sociale, ansia, depressione. Lo scrittore le incarnava quasi tutte, ad eccezione della schiavitù dalla droga. E’ egli stesso a smnetirlo. Nel film se ne fa un preciso riferimento. A Lipsky che gli pone infatti l’esplicita domanda – con lo scopo di farne la Downtown del suo articolo – Wallace risponde: “Non era uno squilibrio chimico e non era droga e alcool. Penso che sia stato molto più il fatto che ho vissuto una vita incredibilmente americana. Questa idea che se solo avessi potuto ottenere X , Y e Z, tutto sarebbe andato bene”.
L’aspirazione all’efficienza, l’agonismo, l’ottimizzazione delle proprie performances. Qui sta l’origine del disagio che Wallace riconosce nella realtà americana, e perciò nell’individuo occidentale. Gli archetipi X, Y e Z, gli obiettivi dalla conquista dei quali far derivare la propria felicità, fissati e delineati dai messaggi più o meni subliminali di tutto ciò che è pubblico, divengono mostri sacri. Assurgono a ruolo di oasi nel deserto, di parametri di riferimento cui diventa impossibile adeguarsi. Rendendo perenne nelle donne e negli uomini il sintomo della mancanza, del fallimento. O dell’invidia, come quella che a tratti emerge nella figura di Lipsky, aspirante scrittore che si auto-percepisce imbrattatore di carta al cospetto di un cervello e un cuore così creativi come quelli del suo interlocutore. Di contro, in Wallace il fallimento consiste nella sua bipolarità. “Sono un esibizionista egoista e incredibilmente timido” dice di sé durante un’intervista radiofonica; “Considero preziosa la mia ordinarietà”, confessa poi a Lipsky, salvo sapere che si tratta di una mistificazione di sé, che è il suo stesso atteggiamento di auto-illusione a costituire la chiave della sua gloria pubblica, a farlo prosperare nell’industria del successo.
E’ questa dualità così sofferta che probabilmente spingerà Wallace al suicidio nel 2008. Suicidio che in qualche modo egli spiega e profetizza a Lipsky come alternativa fisiologica al bruciore della sofferenza.

“Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme”.

Il film, grandioso nella sua semplicità, è una splendida rappresentazione cinematografica di quella che Kant chiamava “menzogna interiore”. E l’intervista – mai pubblicata – di uno scrittore diventa dunque il racconto del tentativo, a scampoli riuscito, di smascherarla. Perché in fondo, l’eredità più preziosa del pensiero di Foster Wallace consiste in una consapevolezza, è lo svelamento della chimera di una condizione umana lungo il sentiero di X – Y – Z. Quello che l’uno dovrebbe abbandonare per sfuggire all’ansia da prestazione, e svelare finalmente all’altro l’universo infinito delle proprie debolezze.

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