Tra i diversi motivi per cui vale la pena di andare a vedere Sleuth di Kenneth Branagh c’è sicuramente quello di gustarsi un film di un’ora e mezza girato con due soli attori in perfetta forma, capace di appassionare e coinvolgere, senza mai cedere neanche per un momento alla stanchezza; operazione ardua (pienamente riuscita) anche se i due attori in questione sono del calibro di Michael Caine e Jude Law.

L’impianto fortemente teatrale del film svela la sua origine drammaturgica, tratto da un’opera teatrale di Anthony Shaffer, diventata in seguito un film di Joseph Mankiewicz nel 1972, dove curiosamente la parte di Jude Law era stata di Michael Caine. Ma non ci troviamo di fronte a un remake, non solo perché questo film è molto diverso dal primo, ma anche grazie all’intervento sulla sceneggiatura del premio Nobel Harold Pinter. Già nel 1978, Pinter aveva affrontato il tema del tradimento in una commedia, Tradimenti appunto, pervasa da una sottile violenza verbale che qui esplode invece in una cieca violenza fisica e psicologica. Proprio il tradimento è il motore da cui prende avvio il film: l’attore/parrucchiere Milo Tindle è infatti l’amante della moglie del vecchio ed egocentrico scrittore di romanzi polizieschi Andrew Wyke; Milo si reca a casa di Caine per convincerlo a concedere il divorzio alla moglie. Quello che il giovane non sa è che Wyke, dietro i suoi modi apparentemente accomodanti, gli sta tendendo una terribile trappola; il vecchio romanziere promette infatti che concederà il divorzio alla moglie a patto che Milo finga di rubare i preziosi gioielli custoditi nella cassaforte del vecchio, per poi rivenderli ad un ricettatore e ricavare i soldi necessari a garantire alla moglie di continuare a vivere nel lusso a cui è abituata. Milo abbocca, e ha inizio così una lotta feroce tra i due, un gioco violento in cui vittima e carnefice si scambiano continuamente i ruoli, fino alla soluzione estrema, l’unica possibile per uscire dal gioco stesso e spezzarlo. Ad un certo punto la figura della moglie sembra dissolversi, e non solo perché nel film non appare mai, ma perché ciò che diviene fondamentale è il rapporto instaurato tra i due, intriso di un sottile fascino, che diventa morboso, complementare, irrinunciabile. Risulta allora chiaro che in gioco non c’è solo la protezione dell’onore e della donna, ma soprattutto il desiderio di dominio e dell’affermazione di sé, più grande della brama di potere o di danaro; quando Jude Law, smessi i panni del finto detective, dà avvio alla sua vendetta, nella sua testa non ci sono più né i gioielli Bulgari né la sua amante, ma la voglia bramosa di vedere quel vecchio che ha osato terrorizzarlo perdere la dignità, infliggendogli ogni sorta di umiliazione.

A fare da sfondo perfetto al tutto c’è la casa di Caine, labirintica, insidiosa, ultratecnologica, che segue e imprigiona i protagonisti in maniera quasi soffocante. Kenneth Branagh importa magistralmente il gusto dell’esasperazione shakesperiana in un film serrato, senza la minima sbavatura, con dialoghi essenziali e stringenti, con inquadrature dall’alto che scrutano da lontano i due protagonisti e sembrano preannunciare le terribili conseguenze di quell’incontro. Resta da chiederci, guardando questo film, se anche in Italia riusciremo a vedere un film così bello realizzato con due soli attori: la speranza c’è, speriamo non arrivi la delusione.

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