Miron e Aist intraprendono un viaggio solo in apparenza reale. Il loro transito è verso l’impossibile, l’ignoto. C’è un’invisibile forza trainante, molto simile all’oceano del pianeta Solaris, che materializza il passato. I due uomini si addentrano nella memoria. Si calano nell’abisso di se stessi alla ricerca della loro identità legata ad una etnia ormai estinta e al recupero delle emozioni usurpate dalla civilizzazione. Da questo tuffo nel profondo non si potrà tornare indietro.  Il presente è solo una desolante entità fantasmatica a cui voltare le spalle. Il futuro si presagisce impossibile da vivere in ambito terreno. Il corpo morto della donna amata da dissolvere nel rogo funebre, come vuole la tradizione Merja, è il laconico addio alla materia e la vivificazione perenne dello spirito. Infine nell’acqua gli amabili resti si scioglieranno per ricongiungersi all’elemento primordiale.

La morte è il “non è”, il “non essere” oppure il passaggio verso una nuova esistenza. La soglia verso l’espansione dell’anima. Riaprire gli occhi, percepirsi in diversa forma o non averne più alcuna. Si proverebbe paura o libertà? Il paesaggio ai nostri occhi si presenterebbe ombroso o luminoso?

La scomparsa della trasognata Tanya sembra aver contaminato tutto quello che la circondava.

Silent Souls è un’isola di morte in cui anche i vivi sono già estinti e i loro ricordi sono impassibili immagini asettiche di vite anonime. Si respira un terribile vuoto che aleggia sulle persone, negli interni delle case, nei rapporti umani. La vita è come spenta. La macchina da presa si sofferma su gesti quotidiani, arcaici rituali, volti annichiliti privi di qualsiasi slancio vitale. Sembra svilupparsi un’incapacità di poter decidere sul proprio destino. Infatti la giovane sposa viene colta da una morte improvvisa e incomprensibile. Tutto si svolge in un’assenza alienante molto vicina alla poetica filmica di Jim Jarmusch e Sofia Coppola.

La voce fuoricampo ormai ci parla da un luogo che si trova altrove, sembra avere una conoscenza e una consapevolezza sovrumana.

Nel film echeggia la frase: “ Soltanto l’amore non ha fine” ma dov’è questo amore? Il protagonista si mostra sofferente e devoto alla moglie precocemente deceduta ma la giovane donna, dall’inesistente personalità, era trattata come carne da sottomettere ai suoi piaceri più morbosi. Questo svilito omaggio alla figura femminile prosegue con la scena delle due prostitute, definite ‘un dono dal cielo’, che si concedono fin troppo beatamente ai due protagonisti poco dopo conclusa la cerimonia funebre dell’adorata Tanya  perché: “Il corpo vivo di una donna è un fiume che porta via il dolore”.

Suona tanto poetico ma, comunque sia, riconduce la donna allo stereotipo del corpo/oggetto non riuscendo ad evidenziare altro in questo film che si trascina  troppi ‘pesi morti’.

Certamente anche la figura maschile ne esce altrettanto sconfitta. Un’accusa nei confronti dell’uomo contemporaneo e al suo mal di vivere che fa diventare la morte una liberazione per l’anima e un confortante ricongiungimento con gli affetti più cari.

Il rogo funebre, il cuore della vicenda, non è che sia molto poetico e suggestivo.

Il corpo avvolto in una squallida copertina viene deposto sopra una pira di legno comprata in un negozio. Per alimentare il fuoco si svuotano, sul cadavere, diverse bottiglie di alcolici. Dopodichè i resti si riversano, con una pala, in un anonimo sacco e si vanno a buttare nel fiume.

Insomma nessuna Ofelia vestita di fiori che scivola dolcemente sulle acque mentre viene consumata dalle fiamme come l’ingannevole immagine di uno dei manifesti del film ci fa credere.

La scena sembra più simile  alla soppressione di un cadavere che ad un antico rito funebre pagano.

Poesia e rudezza  convivono in questo terzo lungometraggio di Aleksei Fedorchenko in cui influisce il suo occhio di documentarista. Sarà stata quella spolverata di mortifero sarcasmo ad esaltare Quentin Tarantino che lo ha definito “Notevole in ogni sua forma. Grande, semplicemente meraviglioso”. Oppure sarà rimasto incantato dagli zigoli.

La malinconia di un mondo in rovina o meglio di un cinema in rovina. Silent Souls scorre come un lento, insostenibile sogno attraversato da un’immensa natura deserta, espressione degli stati d’animo degli individui che la valicano. Quel paesaggio da sempre oppressore/protettore dell’inquieta anima russa.

Fedorchenko ha reso il suo cinema una vera e propria missione di recupero in favore delle culture e tradizioni che stanno sparendo: “Ogni anno nel mondo scompaiono piu di trenta lingue che appartengono a piccole etnie e si dovrebbe fare in modo che questi linguaggi e queste culture potessero sopravvivere” (Aleksei Fedorchenko)

Il suo prossimo lungometraggio, Le mogli celestiali dei Mari Lugovykh, è dedicato alla lingua di una popolazione che vive al nord del Volga.  Il film è attualmente in post produzione ma potrebbe essere presentato al prossimo Festival di Venezia.

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