[***1/2] – Ecco il cinema americano, quello di stampo hollywoodiano, il migliore, che è arrivato dirompente e in concorso, nella quarta edizione del Festival di Roma. Il regista Jason Reitman è tornato sotto i tetti di Renzo Piano dopo avervi trionfato due edizioni fa con il suo Juno, e vi è tornato con un’opera suadente, ma che desta qualche riflessione sull’allettante forma di questa tipologia di cinema oltreoceano.

Ryan (George Clooney) è un “tagliatore di teste”, percorre gli Stati Uniti in lungo e in largo tra aziende e multinazionali per licenziare dipendenti e adempie l’ingrato compito di dar loro il triste annuncio addolcendo la pillola in modo professionale, standardizzato, collaudato secondo le regole del “miglior modo possibile”, funzionale affinché il trauma sia vissuto con conseguenze che minimizzino implicazioni e ripercussioni spiacevoli per l’azienda (in primis) e per il dipendente: il classico weberiano “agire razionale rispetto allo scopo” dei nostri tempi. Ryan è un tipo cinico e dissacrante ma dal cuore tenero, ha coscienza del proprio mestiere ed è fortemente empatico nei riguardi delle sue “vittime”. Ha poche responsabilità che vanno oltre quelle riguardanti il suo lavoro, nessun legame, pochi amici, in viaggio per più di trecento giorni l’anno. Ha sposato pienamente il mondo della velocità e della tecnologia, dell’ambizione e dell’efficienza: vive tra aeroporti e catene alberghiere e la sua casa è un trolley maneggevolissimo con all’interno nulla più dell’indispensabile; è talmente a suo agio nella condizione di Business Man in eterno movimento da tenere corsi e conferenze su come disaffezionarsi al superfluo e all’ingombrante. Quando il suo eterno peregrinare viene minato dall’idea di una rampante giovane collega di licenziare i vari dipendenti via internet e non più spostandosi di sede in sede, Ryan si trova fortemente disorientato al pensiero di non poter più vivere la sua instabile stabilità e si accorge che qualcosa di essenziale e urgente manca nella sua vita.

Clooney è impeccabile e appropriato nella parte, divo erede dei migliori personaggi della commedia americana d’altri tempi. Eredità che raccoglie lo stesso film in un assetto strutturale che nulla fa rimpiangere di quella commedia classica di qualche decennio fa, gioiello della storia del cinema americano. Reitman cesella pregevolmente ogni elemento della storia sfociando in risultati ammalianti, pur se con un’ultima parte meno prestante. Una sceneggiatura che minimizza ogni sbavatura, accattivante, dai dialoghi serrati e brillanti, sagaci, effervescenti, fulminei che viaggiano sempre sospesi lì a metà strada, semanticamente polivalenti. Una su tutti: la scena in cui il protagonista “abborda” l’attraente e assidua viaggiatrice di cui s’invaghisce. Trascorrono ore nel parlare e confrontare le loro innumerevoli carte fedeltà che collezionano. Entrambi membri onorari di esclusivi club tra compagnie aeree, autonoleggi e catene alberghiere che li illudono di essere famigliari e distinti adepti tra orde di impersonali e anonimi clienti. Parlano in modo esilarante di tutto questo, ma tra le righe si comunicano un “mi piaci”, “ti piaccio”. Nulla di cinematograficamente colossale e grandioso, ma avercene da queste parti di sceneggiatori in grado di strutturare dialoghi così (in)calzanti ed evocativi in una commedia.

Con una regia classica e  appropriata; un montaggio efficace nel dare man forte alla descrizione e caratterizzazione del personaggio, Tra Le Nuvole si concretizza in un ottimo compromesso tra squisita commedia dalle buone fattezze e riflessioni sulla società americana e occidentale capitalistica contemporanea. Il suo essere accattivante e di facile lettura per qualsiasi tipologia di spettatore è anche qui mirabile abilità tipica di ogni buon sceneggiatore nordamericano. E Reitman, all’interno dei suoi ben delineati personaggi, stereotipati in senso positivo nelle loro fattezze, nella loro godibilità e riconoscibilità, innesta riflessioni sui legami, la solitudine, il contemporaneo vivere e il way of life ai tempi della crisi economica.

Un solo appunto, forse neanche da poco, una considerazione legittima per un film che tra l’altro è anche passato in concorso ad un festival: Up In The Air è pur sempre frutto di una macchina cinema (industria) più grande e nel suo saper abilmente accontentare tutti, va da sé che sia un film che non disturba nessuno, che mette sul fuoco ardenti e pressanti temi in un’aura dolce e ammaliante, ridefinendoli in modo rassicurante. Quei primi piani e volti di freschi licenziati senza stipendi e assistenza sanitaria stazionano e passano con poca eloquenza, essenza, sostanza: restano lì, sospesi a metà, Tra Le Nuvole.

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