La finzione nella finzione, l’irrealtà nella realtà. L’overture morettiana sembra l’inevitabile inizio del regista che si presenta: ecco questo sono io, Nanni Moretti, il direttore artistico dello spettacolo che sto per proporvi. Ma è un simbolismo, le scatole cinesi dell’oggettività, il gioco di ombre della consistenza che si nasconde e poi appare e si nasconde di nuovo.

Cos’è la nostra verità se non un mezzo attraverso il quale manifestiamo noi stessi? Non siamo tutti registi dell’esistenza? E nel nostro modo di vivere non coinvolgiamo altre persone e cose mettendolo in pratica così come un fiume impetuoso che scorre, inevitabilmente, con la fretta di raggiungere il mare? Come pupi, nelle mani di un immaginario Mangiafuoco, siamo protagonisti della materialità e a nostra volta anche burrattinai di altre marionette, influenzate dalla nostra presenza, spinte dalle suggestioni, dalla necessità degli incarichi, tanto nei rapporti interpersonali che regolano la quotidianità quanto nei legami familiari, costretti dentro schemi restrittivi e a binario unico. Il lavoro, i rapporti, i sentimenti, le conoscenze, gli amici. Interpretiamo la scena a seconda del momento, calchiamo palcoscenici diversi subordinandoci alle necessità del momento. Schiavi di noi stessi siamo pupi e pupari, esponendo il “nostro” film ma senza consapevolezza.

Districandosi nella realtà della vita della regista – una sempre più brava Margherita Buy – impariamo presto il gioco: non c’è differenza tra le scene finte e vere, tant’è che si richiede all’interprete di “restare accanto al personaggio interpretato”. E’ questo un altro immancabile segnale inviatoci da Moretti dove, appunto, grazie all’approssimarsi della fine materna, tutto si confonde, temendo quel mare che presto apparirà ma sotto le sembianze di una mancanza che non conosce precedenti. Madre e mare e il fiume che scorre veloce e che finisce al mare…

Nella sequela dei nostri fallimenti sentimentali quotidiani Margherita/Nanni ci mostra un po’ di tutto: il matrimonio finito, la figlia viziata e leggermente trascurata, l’amante stanco che si allontana, l’energia e la fatica di una giornata lavorativa dura da combattere e che trascina allo stremo, obbliga a resistere. E poi l’attore megalomane – John Turturro – che potremmo identificare, rassegnati, con chiunque ci “disturbi” giornalmente. E parallelamente la madre ricoverata ed in fin di vita.

L’analisi del nostro vissuto contemporaneo è la parte più importante dell’opera di Nanni Moretti, è un regalo agli spettatori che avranno la voglia di dedicare il proprio tempo ad un tema triste e noioso come la morte. Ma qui non si trasmette il mero dolore di chi sopravvive ad un congiunto, bensì tutto quello che ne deriva dalla riflessione. Sempre attento agli aspetti interiori più reconditi, Moretti legge quindi tra le righe dell’afflizione senza tralasciare la presenza enorme della genitrice, fonte unica e sola della nostra continuità di individui. Non possiamo prescindere dalla madre neppure se lo vogliamo, siamo indissolubilmente agganciati ad essa come le maglie del DNA con cui siamo venuti al mondo lo sono tra loro. E’ al cospetto di questo grande contrasto che restiamo inermi, noi e le nostre vite di cui siamo e non siamo responsabili, e i legami forti che ci chiamano ma non riusciamo a gestire. Perché non lo vogliamo proprio capire che i sentimenti ed il loro controllo sono la cosa più difficile ma anche una grande vittoria umana, contrappeso della nostra interiorità. Così ci eclissiamo dietro al lavoro, agli interessi, agli amici – anche finti se necessario, così come i falsi valori – pur di non affrontare le nostre responsabilità emotive.

La figura della Madre ci riporta alla realtà, è la presenza che non permette di nasconderci comunque essa sia, di fronte a lei siamo privi di schermi e nella nostra conseguente essenzialità incontriamo nuovamente quello che siamo stati. La scena eloquente in cui Margherita vorrebbe costringere, bruscamente e prepotentemente, la madre a camminare racchiude in sé lo smarrimento di una bambina che vuole ritrovare la forza premurosa di cui oggi avrebbe ancora bisogno. Da qui il commosso e intenso abbraccio madre/figlia, un gesto di commiato per chi non è già più, figura scomparsa dai ricordi di una ragazzina, madre che sta per andare via.

Ci si chiede dove finisca lei e tutto il suo sapere, tutti quegli anni di rigore, insegnamento, sacrificio, amore degli altri, mentre la mano scivola ad accarezzare il dorso dei libri scolastici – originali, tra l’altro, della genitrice di Moretti e ripresi dal figlio come elemento integrante e fondamentale della messa in scena. Penso che ognuno di noi abbia in casa almeno qualcosa che ricordi, nell’assoluto, la propria madre.

E quando il fratello di Margherita, interpretato dallo stesso Nanni Moretti, sceglie di abbandonare il lavoro definitivamente, il messaggio è completamente chiaro, così come lo sguardo della regista Margherita che chiude il sipario della vita. Con la madre muore anche qualcosa di noi, forse un po’ di illusione.

Nei nostri dinamici mondi, dimentichiamo con facilità chi amiamo. Li immaginiamo, i nostri affetti, sempre ad aspettarci, raggiungibili comunque al termine dei nostri impegni; al contrario, quanto perdiamo nel non coltivarli non è quantificabile, impegnati nelle nostre esistenze di pupi e pupari. Almeno qualche volta dovremmo fermarci nel proscenio a riflettere, per evitare così quel senso di fallimento di chi sa sentire, ma solo quando ormai è troppo tardi.

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