Non è un caso se la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta sono da sempre al centro di sviluppi romanzeschi, di trame cinematografiche. Se facciamo il confronto tra la vita di un comune camorrista e una normale esistenza borghese, dal punto di vista di un narratore non c’è paragone: nel primo caso ci troveremo di fronte a fughe, ammazzamenti, scelte cruciali tra la vita e la morte, nel secondo l’essenza tragica della vita è costantemente dissimulata, resa inafferrabile da una programmatica rimozione. Nella biografia di un criminale, invece, la tragedia è sempre in agguato, e questo naturalmente rende tutto più interessante.

Il cinema in particolare nutre da sempre una vera inclinazione per le vite dei criminali, dei killer, dei boss mafiosi e delle loro donne perdute. Anzi, si può affermare senza timore di esagerare che buona parte di quello che sono la tecnica e il linguaggio cinematografici di oggi sono stati testati e sperimentati su scene di sparatorie, ritrovi di gangster, vendette mafiose.

C’è una tendenza fondamentalmente romantica, però, che ha sempre prevalso nelle rappresentazioni cinematografiche di mafia e affini, soprattutto quelle hollywoodiane: il boss è stato spesso dipinto come un grande eroe del male, come il depositario di valori profondi che, seppur in contrasto con le regole della convivenza civile, esercitano il loro indiscutibile fascino. Il padrino, naturalmente è il campione di questa tendenza, ma il Jack Nicholson di Departed di certo non fa eccezione: è cattivissimo, certo, ma è coraggioso, carismatico e quando muore, in fondo, ti dispiace per lui.

Saviano invece, essendo anch’egli tutt’altro che immune dal fascino diabolico dei capoclan, mette in primo piano la macchina da soldi e potere, perfetta e disumana, descrive il meccanismo più che gli individui, il “sistema”, come lo chiamano i camorristi tra loro. In un certo senso Gomorra, pur avendo un protagonista con un alto grado di coinvolgimento, è un libro marxista. L’analisi minuziosa del sistema, anzi dell’impero economico, come recita il sottotitolo (Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra), è la vera rivelazione del libro. Saviano segue le cose, i soldi, le merci, i rifiuti. Per descrivere gli imperscrutabili collegamenti tra un condominio in cemento armato nel casertano e una fabbrica chimica del nord, o tra una ditta di un sottoscala di Aversa e una notte degli oscar a Los Angeles usa lo stesso linguaggio viscerale, fisico, che adopera per descrivere le guerre tra i clan, i morti ammazzati, i cadaveri straziati. E così il traffico internazionale di armi, di droga, di abiti made in Italy appaiono come un immenso, unico organismo che pulsa, che ha bisogno di nutrimento e che, come tutti gli organismi, per sopravvivere distrugge e uccide tutti gli altri organismi che lo ostacolano. Saviano lo dipinge così perché in effetti è legittimo vederla in questo modo: il capitalismo, se fai piazza pulita di tutti i principi morali e religiosi, di ogni idea di giustizia e di diritto, è un meccanismo inarrestabile che stritola tutto e tutti, che non tiene in nessun conto le singole vite umane né tantomeno la conservazione dell’ambiente naturale. Non ha altra finalità se non quella di arricchire presto e bene i suoi occasionali fautori, che verranno eliminati comunque non appena la loro presenza sarà avvertita come un peso. Ecco, i camorristi che descrive Saviano, sembrano aver capito meglio di chiunque altro tutto questo, sanno che finiranno stritolati e infatti l’unica cosa che vogliono dalla vita, che sanno breve, è guadagnare il più possibile e comandare veramente (cioè comandare le cose non le persone, come spiega il padre dell’autore in un passo illuminante). Punto e basta. E non importa se per una breve stagione di gloria è necessario massacrare nemici, ex amici o parenti, inzeppare di rifiuti tossici la propria terra, smerciare dosi tagliate male.

Questo approccio visceralmente marxista al racconto della malavita organizzata, che fa discendere gli uomini dalle cose, e i comportamenti dal sistema economico, non ha trovato finora un corrispettivo cinematografico, se non forse nella prima mezzora di Casinò in cui Scorsese orchestra una rappresentazione dettagliata e ritmata del giro di soldi, del trasporto delle partite di droga, del confezionamento delle dosi, della moltiplicazione dei guadagni. Una narrazione che è anche, ambiguamente, una sorta di glorificazione dell’efficienza delle organizzazioni criminali, che sono come delle multinazionali private di ogni vincolo e restrizione, liberismo allo stato puro: la maggior quantità al minor costo possibile, il profitto sopra ogni altra cosa, legge della giungla applicata con inflessibile ferocia.

La Fandango com’è noto ha acquistato i diritti di Gomorra e ne ha affidato la sceneggiatura a Matteo Garrone, regista di storie forti. Le aspettative sul film tratto dal caso letterario dell’anno saranno altissime. Noi speriamo che Garrone sappia comporre un’opera altrettanto originale e dirompente, ma sappiamo che non sarà facile.

 

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