di Giovannella Rendi /    Di pochi allenatori ci si ricorda il nome, di solito di calcio, di tennis se non sei un esperto del settore neanche uno. O meglio, solo di uno, che col passare del tempo si è trasformato in un personaggio mediatico dai contorni sfumati e per nulla positivi, quello che ha fatto rinascere la scuola americana in cui la potenza conta di più dello stile, quella generazione di bombardieri palestrati che sembra aver popolato improvvisamente di steroidi i verdi campi da gioco europei. Trattasi di Nick Bollettieri, famigerato fondatore della Tennis Academy che porta le sue iniziali e che dalla fine degli anni settanta ha visto allenarsi sui suoi campi Agassi, Becker, Courier, Rios, Sampras tra gli uomini; Capriati, Janković, Hingis, Seles, Šarapova, Venus e Serena Williams, tra le donne.

Come giustamente osservato dalla stampa americana, la NBTA ha fatto nel mondo capitalistico quello che normalmente accadeva solo dietro la cortina di ferro, ovvero sottrarre ragazzini alle loro famiglie per allenarli quanto possibile a diventare dei campioni, secondo discutibili regole che prevedevano anche che i giovani ospiti lavassero le sue macchine e facessero le pulizie e che i migliori sedessero alla tavola di casa sua e venissero trattati come figli, nonché brutalmente allontanati dalla casa e dall’accademia non appena avessero smesso di essere i migliori (tipo Kathleen Horvath, la più giovane tennista ad aver partecipato agli US Open, che sembra solo ora essere riuscita non a perdonare, ma quantomeno a metabolizzare il trauma di passare da figlia adorata a reietta rifiutata e dimenticata).

La sua impassibile faccia di cuoio chi seguiva il tennis tra gli anni ’80 e ’90 se la ricorda bene, e chi ha letto Open, dolorosa autobiografia di Andre Agassi, ha potuto di recente rinfrescarsi la memoria con la storia della Tennis Academy, ma il bel documentario di Jason Kohn ci mette proprio faccia a faccia con l’uomo e la maschera, senza peraltro svelarne il mistero.  Un personaggio di duro che non si guarda mai indietro (“non mi ricordo nemmeno il nome di tutte e otto le mie ex mogli”)  che Bollettieri stesso si è evidentemente creato e che interpreta con entusiasmo, con le sue dichiarazioni da manuale di self help sul perseguire il successo con la passione e sulla necessità di essere dei vincenti.  Chi sia in realtà, però, non si  sa bene: uno zio in odore di mafia che lo aiuta ad iniziare l’attività di istruttore di tennis (“noi italiani sappiamo usare le relazioni”) anche se ci aveva giocato solo un po’ all’università (“ma dovevo mantenere mio figlio e mia madre”).  Glissa sulla laurea in filosofia e la carriera militare che invece gli attribuisce wikipedia e appare improvvisamente cinquantenne quando apre la famosa accademia.  Non sa giocare, non conosce la tecnica ma a quanto pare “è un life coach per il quale ogni set è una battaglia” (Boris Becker).  Per diventare famoso però ha bisogno di un campione, e il destino gli mette sul piatto d’argento un ragazzino che non solo ha talento ma che è anche la perfetta icona pop dell’estetica di fine anni ’80, una specie di George Michael epoca Wham! con la racchetta, che piace alle ragazzine, pubblicizza qualsiasi prodotto e finalmente vince, vince, vince. Malgrado sia il ribelle che non rispetta le regole della scuola, è il figlio ideale, per il quale vengono sacrificati tutti gli altri (per primo Jim Courier, che però si prende un paio di velenose soddisfazioni al Roland Garros, esacerbato non tanto da Agassi quanto dal fatto che Bollettieri non sieda nella sua tribuna).

Fin qui il film, in cui domina la faccia di cuoio ormai rugosa di Bollettieri che resiste monoliticamente alle provocazioni del regista, che continuamente gli chiede di non recitare, di non essere “fake”, e cerca di scardinare il personaggio. Bollettieri non ha l’aria di uno da cui comprare un’auto usata, ha un appeal estremamente cinematografico, oggi come nelle immagini di repertorio, e sempre con qualcosa di inquietante, oggi come cattivo da film di Tarantino o dei Cohen, ieri grazie ai ricci e ai baffoni spioventi e l’aria di uno divo del porno alla John Holmes uscito dalle Boogie Nights di Paul Thomas Anderson nelle immagini già vecchissime e tremolanti degli anni ’80.

Con l’entrata in scena (o meglio in campo) del figlio ideale,  Love means zero si trasforma invece in una tragedia classica per via del conflitto fratricida con Courier e soprattutto l’odio-amore per il padre putativo da parte di Andre Agassi, adolescente già massacrato dal vero padre, ex pugile iraniano con problemi di autostima. Non è un caso che a rivedere le immagini d’epoca , quelle sfide che ti inchiodano ancora lì col cuore in gola anche se ti ricordi benissimo come è andata a finire, Agassi ha uno sguardo tristissimo e perso che all’epoca nessuno sembrava notare e lo guardiamo oggi come qualcuno che non c’è più, che è morto giovane, caro agli dei.  Per fortuna non è così, ma il sopravvissuto è una persona del tutto diversa ed evidentemente lacerata, come sappiamo bene ma non da questo film: perché a parte nelle immagini di repertorio Agassi non compare mai, è il grande assente, il convitato di pietra, ha rifiutato qualsiasi partecipazione e non risponderà alla lettera che Bollettieri gli scrive alla fine del film. Anche lui è stato abbandonato, in modo tragico e brutale, forse proprio perché stava per rendersi indipendente dalla figura paterna e per questo doveva essere punito.

Il tennis è uno sport estremamente violento, soprattutto a livello psicologico, come gli scacchi: David Forster Wallace ha scritto pagine memorabili sulle sofferenze necessarie a fare di un bambino un campione e sul fatto che probabilmente i veri asceti di oggi siano i grandi sportivi, per lo scarsissimo compenso alle enormi sofferenze che vengono loro inflitte e che si infliggono.  «Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta» è l’incipit di Open.  Dietro di loro c’è sempre un padre (ogni tanto anche una madre, vedi Murray e la temibile signora con la bocca a taglio che lo osserva durante le partite) che cerca un riscatto personale in qualcuno che considera una parte di sé. Che lo faccia qualcuno che non è il tuo genitore, che lo faccia per soldi e in una enorme fabbrica di carne umana adolescenziale (vengono in mente le immagini dei ragazzini che finiscono nel tritacarne di The Wall di Alan Parker e dei Pink Floyd) ci lascia con una certa inquietudine. E il fatto che la sua accademia sia stata acquistata per milioni di dollari dalla IMG e il suo sistema prosperi su larga scala, non migliora molto le cose.

p.s. Un encomio speciale per il titolo, che non è, come ci si aspetterebbe, la frase finale del film, o una delle ciniche dichiarazioni di Bollettieri. Non viene pronunciata da nessuno e non ne sappiamo l’origine.  Evviva.

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