L’ultimo film che ho visto di Jonathan Demme prima di Fear of falling, Rachel sta per sposarsi, era un intenso,vibrante dramma famigliare filmato nello spirito del cinema di John Cassavetes: macchina a mano, attori esposti, attraverso i personaggi, nelle loro fragilità e vulnerabilità (con la diva “perfettina” Anne Hathaway nel livido e doloroso ruolo di una ragazza interrotta e la rediviva Debra Winger come madre brutale sotto la maschera di un’apparente compassione), capacità di cogliere e restituire il senso del  tempo  di un’azione autentica, in presa diretta, come in un lungo happening dove accadono situazioni, si stabiliscono relazioni e emergono emozioni e pensieri, da un momento e da un punto di cui non conosciamo la partenza e non possiamo aspettarci l’arrivo.

In questo Rachel assomigliava molto alla vita, ne diventava anzi uno specchio riflettente una luce calda e abbagliante, con il bianco come colore dominante, che non eliminava certo le zone d’ombra e i chiaroscuri, al contrario li rendeva più evidenti, li metteva sotto i riflettori, una sensazione di nudità e di purezza emotiva, con uno spazio aperto per accogliere tutto ciò che accade, ma anche il suo contrario: tenerezza e durezza, sentimentalismo e cinismo, perdita, morte (il fratellino di Rachel  morto in un incidente di macchina dove era  Kym, la sorella alla deriva sotto effetto di droga, a guidare), la ciclicità della vita nel matrimonio più colorato, più interculturale e festoso – vero momento di liberazione, compassione ed elaborazione del senso di colpa  – che il cinema non solo americano abbia filmato negli ultimi anni. La scena di Rachel che accoglie una Kym pesta, sporca ed emotivamente distrutta, la lava, la veste e la cura, restituisce una dimensione intima, di calma quiete, di sospensione che si prova nel contatto con un’altra persona. Demme filma i corpi, ma, come se la sua macchina da presa fosse un prolungamento di una mano, quando entra in contatto con quei corpi ne fa emergere un calore a fior di pelle. Un cinema che mantiene un nucleo di umanità che rende ogni suo film uno struggente, tenace  movimento verso l’autenticità, pur nel massimo della rappresentazione.

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Fear of falling ha la luce di Rachel sta per sposarsi, questo almeno all’impatto con la prima, meravigliosa carrellata che attraversa le eleganti case dei sobborghi  residenziali di una qualche imprecisata città, un movimento di macchina rapido e fluido  come un soffio di vento che però riempie lo sguardo, trasporta in un altrove che poi scopriremo essere spaziale e temporale, visto che la storia che viene raccontata è la trasposizione cinematografica di un dramma di Ibsen, Il costruttore Solness, nella messa in scena che ne ha curato Andre Gregory, storico regista teatrale della scena off newyorchese a cui già Louis Malle aveva reso omaggio realizzando la versione per il cinema di uno Zio Vanya checoviano sulla 42 strada. Il film è dedicato proprio a Malle, amico di lunga data di Gregory per cui aveva realizzato all’inizio degli anni ’80 La mia cena con Andre, dove lo stesso Gregory e l’attore Wallace Shawn, che qui interpreta il protagonista Solness, discutevano sul teatro, l’arte e la vita in un gioco tra la maschera del personaggio e la verità della persona. Demme però, va immediatamente precisato, va oltre la pur pregevole e raffinata operazione che MalleGregory hanno fatto con Checov, dove pure il tempo del teatro e quello della vita coincidevano con straordinaria naturalezza, per cui si passava da una dimensione all’altra senza neanche accorgersene. Demme aggiunge la dimensione del cinema e questo è chiaro fin dal titolo che non corrisponde alla precisione espositiva del titolo originale dell’opera teatrale, che si limita ad introdurre il nome del personaggio protagonista,Il costrutture Solness,appunto: Fear of falling, paura di cadere, rimanda già ad una suggestione, un’immagine, una vertigine di vuoto che  rivela qualcosa di più del personaggio rispetto alla sua identità anagrafica e al lavoro che svolge. Questo ricco, paranoico ed egoista costruttore, tipico personaggio della galleria maschile ibseniana di uomini chiusi nella loro cupidigia dettata da un’aridità esistenziale e terrorizzati dai fantasmi delle loro fobie, aveva l’abitudine di arrampicarsi sulla cima degli alti palazzi che costruiva e porci una ghirlanda con una cerimonia rituale di rara espressione egotica. Ma a un certo punto scopriremo che è successo qualcosa nella sua vita per cui ha cominciato a soffrire di vertigini e ad avere la paura che preannuncia il titolo.

Ovviamente, parlando di un testo dal valore densamente simbolico, la paura di cadere è letta come resistenza al lasciarsi andare al pericolo emotivo per un uomo che ha costruito tutta la sua vita sul controllo e sul potere. Non credo comunque sia interessante fare una dissertazione sullle tematiche del teatro di Ibsen, perché altrimenti ingabbieremmo un’opera aerea, profonda e leggera come questa, dentro i limiti di un saggio teorico sul rapporto tra teatro e cinema, un approccio freddo che contraddice quel contatto che qui Demme ritrova con i personaggi come se da Rachel avesse semplicemente spento l’interruttore della mdp, mantenendo con i personaggi del palcoscenico dell’umanità una costante relazione. In quest’ottica anche la carrellata iniziale è una dichiarazione di poetica e di estetica cinematografica. Il  cinema è continua ricerca, viaggio, incontro, è andare dentro, in profondità, come sapeva fare la scrittura di Ibsen, ma mantenendo una dialettica con l’esterno, con la superficie anche epidermica dei nostri corpi e con la consistenza degli oggetti, della loro presenza che è più precisa e può portarci dentro il valore universale di un attimo vissuto nel presente e in un collegamento con il passato ed il futuro. Pur mantenendo la sguardo fissato su un solo punto ben preciso, Demme si sposta nel tempo, spostando la mdp dentro la grande casa in cui Solness consuma le conversazioni con gli uomini e in particolare le donne della sua esistenza e l’utilizzo del close-up sui volti che, tornando a Cassavetes, ma pure a Robert Altman, diventano uno strumento di conoscenza del fattore umano, dell’aspetto che fa perdere le coordinate dentro cui noi spettatori cerchiamo di orientarci negli snodi drammaturgici e finiamo per perderci nella vertigine di un gesto, in una risata o in una smorfia di dolore.

Il modo in cui scoppia a ridere Lisa Joyce, nel ruolo della giovane fanciulla che, pur irretita e sedotta da Solness da bambina, ha continuato a nutrire per lui un amore mischiato e confuso con attrazione erotica e senso di repulsione, quel miscuglio di emotività e allegria, dolore e vitalità, permette di sentire lo sconcerto in cui è cacciato Solness dalla sua accidia morale ed esistenziale molto più di qualsiasi spiegazione raziocinante sul significato del personaggio. La cornice viene in un secondo momento, prima c’è l’epifania della vita nella performance dell’attore che Demme filma da vero scultore del tempo, come direbbe Tarkovskij.

Si, forse Fear of falling è uno dei più potenti film sul rischio emotivo in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni, e questo stare della mdp a filo degli occhi, del naso e delle bocche, che sia la faccia buffa e attorcigliata di Wallace Shawn, un attore talmente straordinario da
risultare seducente e magnetico pur avendo il phisique du role di un hobbit, o quella spigolosa e indurita di Julie Hagerty (la moglie, prosciugata dall’avidità del marito, di Solness), piuttosto che il volto bello, aperto, bambinesco e sensuale della Joyce, lascia un segno, una vibrazione, una risonanza che solo il cinema, avendo l’opportunità di avvicinarsi al particolari microscopici rendendoli vicinissimi, può permettere di far provare.

Recentemente ho rivisto Un’altra donna, film poco fortunato eppure molto ispirato e personale di Woody Allen, un autore ormai perso completamente nella formula logora di un meccanismo narrativo  sempre uguale a se stesso. In quel film ancora non compiaceva così spudoratamente né il suo ego né un pubblico impigrito e meno esigente. Credo invece che dicesse realmente qualcosa di lui, attraverso il personaggio di una distaccata professoressa di filosofia che alla soglia dei cinquant’anni e all’apice della sua affermazione professionale, riguarda alla sua vita e si accorge di quanto abbia soffocato le emozioni nelle relazioni significative, ingannandosi e costruendosi una maschera di distanza, di non contatto.

L’attrice che la interpreta è, non a caso, Gena Rowlands, corpo, sangue e anima del cinema di Cassavetes, ma questa volta la sua liberazione non è traumatica e dolorosa come nei film del marito, e nel finale può permettersi anche una riflessione come questa:

“Mi sono chiesta se un ricordo è qualcosa che hai o che hai perduto… Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii placata”.

Con lo stesso sentimento di quiete e malinconia sono uscito da Fear of falling, che mi ha lasciato la sensazione che la vita è un flusso continuo, qualcosa che hai e che perdi in continuazione.

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