Il bello di seguire un festival è poter vedere film diversissimi, uno dopo l’altro, provenienti da cinematografie lontane, formati non usuali, film che non potremmo vedere se non lì… E’ possibile immergersi in due viaggi attraverso l’Italia  – da sud a nord  – uno efficacissimo, metaforico e di finzione in Alza la testa, e l’altro deludente, documentario che pur con altissime intenzioni si ferma a un racconto patinato e superficiale del nostro paese. Suddiviso in tre capitoli, scritto e girato a sei mani, L’Italia del nostro scontento (Extra), tratta tre temi cruciali del nostro presente: la bellezza naturale e artistica vituperata (raccontata attraverso interviste a chi lavora con la bellezza come il fotografo Toscani o il regista Winspeare o a turisti americani – solo americani vengono in Italia?), i giovani, la crisi della politica (indagata attraverso interviste a giovani, soprattutto, e a qualche meno giovane)… Titolo altisonante, mezzi promettenti, girato dai figli di chi si occupa di arte a livello mondiale, ci sono anche momenti divertenti, ritmo piacevole del racconto, ma manca di mordente, protesta, affondo: un documentario non dovrebbe svelare qualcosa che a uno sguardo superficiale non si vede?

Affonda, invece, nelle pieghe dell’anima, per svelare qualcosa che sta sotto la superficie, Alza la testa di Alessandro Angelini, che ritorna con la sua opera seconda in Concorso al Festival di Roma. Quattro anni fa con L’aria salata, film d’esordio, era tornato a casa con il premio al miglior attore Antonio Colangeli (che tra l’altro ritroviamo anche in questo film). Quest’anno vedremo se si aggiudicherà qualche premio: sicuramente Angelini ha passato a pieni voti il difficile esame dell’opera seconda che aspetta sempre al varco i registi esordienti. Il film sarà in sala dal 6 novembre distribuito da 01 Distribution. La storia racconta di Mero (un Sergio Castellitto in grandissima forma) operaio in un cantiere nautico, personaggio puro nella sua ruvidezza, che vive le situazioni senza filtri e calcoli. Il centro e il senso della sua vita è il figlio Lorenzo (l’esordiente Gabriele Campanelli, sicuramente da tener d’occhio) che scopriamo aver cresciuto praticamente da solo e che allena in una maniera quasi ossessiva alla boxe. Angelini non ha paura a stare addosso ai personaggi con la camera a mano (alla Dardenne), per seguirne i movimenti, e restituirci la carnalità, la sincerità e la loro affettività. Mero è personaggio complesso e contraddittorio, si sente in credito con la vita, sempre a dannarsi per mettere a posto le cose, sempre a tentare di riscattarsi. Il rapporto padre/figlio è un rapporto materno esclusivo: Mero vede in Lorenzo quello che non ha avuto, lo ama incondizionatamente, lo protegge (continuamente gli ripete di prendersi cura di se stesso), vorrebbe che diventasse quello che lui in gioventù non è riuscito ad essere, vorrebbe in esclusività il suo affetto… Mero ha paura di rimanere solo, perché ha combattuto con la vita, ma ne è uscito a testa alta… E quello che insegna è ad alzare la testa, per guardare in faccia l’avversario, la vita… Il rapporto padre e figlio è raccontato con una profondità e leggerezza eccezionali, grazie all’uso sapiente dei movimenti della mdp, ai dialoghi, alla bravura degli attori che trattengono ogni rischio di andare sopra le righe. L’espressione del dolore infinito che caratterizzerà la seconda parte del film, per la perdita più grande che Mero potesse avere, è resa con tocchi minimi dell’espressione facciale, un gesto (il capello del figlio trovato sulla sciarpa), una ruga, un’espressione dell’occhio. A questo punto come il sentiero della vita, cambia percorso e registro: Mero non si ferma davanti all’ennesima prova della vita e va avanti, superando nuovi pregiudizi, rimettendosi in gioco in una continuo bisogno di non rimanere solo. Attraverserà l’Italia da Nord a Sud in un viaggio che è dell’anima: incontrerà Sara (una bravissima Anita Kravos) in una risalita verso la vita. Attorno a Mero vive, di pennellate veloci, ma efficaci, la società in cui viviamo: da un lato Mero lavora con operai rumeni, di uno è amico, e va anche al suo matrimonio, albanese è la donna che ha amato e che non perdona per averlo lasciato e, dall’altro ha un atteggiamento quasi razzista verso Ana, la ragazza rumena di cui s’innamora il figlio. Angelini tocca temi forti e importantissimi come la donazione degli organi, la transessualità, l’immigrazione clandestina… Tutti concentrati nella parte finale del film: davvero troppi per dare verosimiglianza e credibilità finendo così per rovinare i primi tre quarti perfetti.

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