Altisonante e carico di aspettative pur nella sua stringatezza, il titolo dell’ultimo film della cineasta tedesca Margarethe Von Trotta, Vision, promette un’apertura verso le percezioni extra-sensoriali della mente attraverso lo sguardo che è in contraddizione con lo stile concreto, robusto, classicheggiante, nella forma quanto nella scansione drammatica, dell’autrice di Anni di piombo.

Lo sguardo, infatti, resta e rimane quello di Hildegard Von Bingen, figura realmente esistita di una monaca tedesca vissuta nell’XI secolo, dotata di una spiccata sensibilità visionaria, capace di avere un rapporto diretto e sconvolgente con il divino, che trascende qualsiasi momento liturgico e si manifesta, anzi, nelle circostanze più inaspettate, nella quotidianità delle azioni e dei comportamenti della vita di un Monastero Benedettino e delle sue  novizie. Del monastero l’ispirata Hildegard divenne la madre superiora e anche qualcosa di più, una carismatica guida spirituale, un’eroina proto-femminista che rovescia il primato maschile nel portare per bocca e per occhi propri la parola di Dio e la suggestione della sua immagine.

Ma alla Von trotta non interessa tanto esplorare la dimensione mistica del personaggio attraverso una ricognizione, per quanto dolorosa e tormentata, dentro l’io privato della Von Bingen, e la voce off della stessa religiosa appare più come un asettico narratore che espone i fatti, disinteressato alla riceca di un oltre ultraterreno, esattamente come  lo sguardo della regista.

La voce di Hildegard risulta  didascalica, scollegata con la profonda necessità che appare invece il senso del suo agire, ossia mettere in discussione se stessa e un intero sistema di valori affermando pubblicamente davanti all’autorità della Chiesa (o meglio, degli uomini della Chiesa) di possedere una capacità visionaria semplicemente enunciata. E ciò accade nonostante il volto di per sé malinconicamente evocativo di Barbara Sukowa, già consacratra  dalla Von Trotta ad un ideale di donna emancipata intellettualmente e spiritualmente in Rosa L.

Il film procede, infatti, per blocchi abbastanza paludosi, restituendoci del medioevo germanico l’immagine pedante e illustrativa che se ne può ricavare dai libri di storia, perché è questo l’unico aspetto che riesce ad essere riportato con efficacia, la contestualizzazione storica e sociale, con un’attenzione particolare alla struttura gerarchica del monastero, e la contrapposizione, molto ideologica, del modo positivo in cui le donne sanno gestire il potere, concepito come forma di circolazione e  condivisione di cultura, affetto, esperienza, ed il barbaro sopruso che ne fanno gli uomini. Tutto ciò suggerisce l’equivalenza tra l’oscurantismo del pensiero e dell’anima contro la forza espressiva e comunicativa dell’alterità femminile, il coraggio di guardare con il proprio volto, senza i mascheramenti della liturgia e dell’istituzione  il trascendentale e congiungerlo con le piccole realtà terrene.

Per fare questo la Von Trotta si concentra su Hildegard e il suo microcosmo, costruendo un dramma da camera dove lo spazio del convento all’interno del quale si spalancano copiose, evidenti fessure di luce – un elemento prevalente nella struttura formale del film in contrasto cromatico con il buio da cui la fiera protagonista è avulsa a livello iconografico – assume il significato, anche qui non troppo velatamente simbolico, del luogo in cui si celebra la sorellanza femminile, l’amore eletto che  traghetta la naturalità del “dono” di Hildegard verso la consapevolezza di un’identità di donna.

Anche l’atteggiamento del personaggio di Klara, compagna fin dall’infanzia della Von Bingen nel percorso che condurrà entrambe a diventare suore, dopo le iniziali tensioni dovute al fatto di non essere stata la prescelta della precedente madre superiora, ad un’umanissima gelosia e a un senso di inadeguatezza (anche in questo caso raccontati più che dalle azioni dal volto contrito e intenso di Lena Stolze) si scioglie in una collaborazione leale, silenziosa, prostrazione al valore assoluto dell’amore di Dio. Questo atteggiamento nella Von Trotta si identifica rigidamente con il trionfo della solidarietà e il superamento di quella filosofia secondo cui “se una donna sopravvive, un’altra deve morire”, citando “profanamente” la cantautrice americana Tori Amos, esempio di femminista contemporanea che in tutt’altro campo, quello del rock alternativo, ha mischiato tensione verso il sacro e provocazione ai preconcetti sociali e culturali e che riferiva quelle parole all’ambiente altrettanto gerarchico, maschilista ed oppressivo del music business.

Ecco, se la Von Trotta avesse saputo collocare la vicenda di Hildegard in quella zona altra in cui spesso ci ritroviamo trasportati dal pianoforte della Amos, forse il cinema sarebbe stato in grado di restituire al nostro sguardo l’esperienza vissuta dalla monaca, invece di rimanere  chiuso, incanalato, imbrigliato nel testardo obiettivo e nel compiaciuto piacere di dimostrare una figura femminile in grado di tenere insieme un gruppo di donne attraverso un pragmatismo, un’intelligenza razionale e l’abilità nel fronteggiare i potenti maschi (tra cui l’imperatore Federico Barbarossa). Ne deriva che, pur scostandosi lodevolmente dall’immagine della SantaMartirePazza – un destino a cui la stessa Hildegard per altro non volle piegarsi – questo cinema non provoca sussulti o emozioni cinematografiche, ma un interesse accademico verso la storia vera di una donna, magari libera da certe forzature narrative e in parte romanzesche, come dimostra l’aver messo coraggiosamente in evidenza il rapporto con una delle sue novizie, Richardis Von Stade, un incontro nel quale viene subliminata in maniera quasi esplicita anche l’attrazione erotico/sentimentale che la Von Bingen esercitava.

Nella trasposizione cinematografica della vita e delle opere di un’altra religiosa, la Santa Teresa di Lisieux, il regista Alain Cavalier inserisce una scena in cui una delle compagne di Therese immerge un dito dentro un rivolo di sangue sputato dalla Santa malata di tubercolosi e poi se lo mette in bocca, quasi a voler cercare attraverso un gesto così fisico, estremo, ripugnante, il senso profondo che l’esistenza e la morte di Therese le avevano ispirato. In Vision manca il coraggio di infilare le mani dentro il sangue e la carne di Hildegard per toccare il suo spirito; tutto alla fine si limita ad un’esteriorità formale e ad un indottrinamento secondo il modo di Von Trotta di vedere la donna nella Storia che tradisce la verità, sempre più ambigua, sfaccettata e controversa, a maggior ragione se ci approcciamo ad un’epoca remota come il Medioevo.

Per cercare sullo schermo e dentro la nostra capacità di immaginare quell’altrove dello spirito
e dell’anima che Hildegard volle portare in terra, non resta che lasciarsi guidare dagli occhi della Sukowa, rimasta, anche lei, come un’icona luminosa, fedele a se stessa e al suo volto  prestato a tutte le storie ed esperienze (chi non la ricorda puttana per Fassbinder in Berlin-Alexanderplatz e in Lola?). Le sfumature ora risolute ora malinconiche di certe espressioni ci portano a guardare fuori dalla finestre del convento, nella direzione da cui proviene la luce, a entrare in contatto, per il tramite di ogni ruga e di ogni contrazione del muscolo facciale, con quell’evocato senso del sacro che altrimenti rimarrebbe imprigionato dentro le immagini di una regia diligente quanto opaca.

Speriamo che la Von Trotta riesca a liberare il suo cinema dalle paludi dell’ideologia e a farlo attraversare da quella lucida follia, quel brivido di emozione e pensiero che spesso il cinema femminile ha saputo sintetizzare, rovesciando la dittatura autoritaria dell’immagine maschile.

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