Il 61esimo Festival di Locarno (6-16 agosto) si è concluso con la premiazione nelle sue sezioni principali di due film che si avvalgono entrambi, in maniera sottile, del gioco fra realtà e finzione: Parque vìa di Enrique Rivero, vincitore del Pardo d’oro del Concorso Internazionale, che è un film di finzione basato sulla vita di un personaggio reale, Nolberto Coria, che è anche l’interprete del suo “doppio” cinematografico, e La Forteresse di Fernand Melgar, vincitore del Pardo d’oro del Concorso cineasti del presente, che è un documentario filmato però in maniera tale da sembrare spesso un film di finzione.  Alle prese con dei soggetti dal forte potenziale socio-politico i due registi decidono di “osservare” il mondo che ci descrivono con una certa distanza. Rivero ci offre una visione fredda e distaccata del profondo divario fra classi sociali in Messico, Melgar ci presenta il funzionamento di un centro di richiedenti asilo politico in Svizzera in una prospettiva neutra, calibrata e corale.

Parque vìa, primo lungometraggio di Enrique Rivero, è stato prodotto da Paola Herrera, figura fondamentale nello sviluppo del cinema messicano indipendente, che ha visto emergere delle opere innovative e radicali come quelle di  Carlos Reigadas e di Amat Escalante. Enrique Rivero si inscrive in questa nuova corrente con un film singolare dall’estetica rigorosa e dall’atmosfera sottilmente opprimente. Beto, un anziano “indio”, lavora da sempre al servizio di una famiglia dell’alta borghesia di Mexico City. Da più di dieci anni vive solo, recluso in un’enorme villa vuota in attesa che essa sia venduta. Le sue giornate sono ritmate dalla ripetizione monotona dei lavori domestici: ogni mattino si sveglia alla stessa ora, pulisce i pavimenti, taglia l’erba in giardino, lava i vetri, si cucina da mangiare, stira le sue camicie e di sera si riposa davanti alla televisione. Questo isolamento è interrotto solo dalle apparizioni sporadiche della padrona che viene a controllare il suo lavoro, dalle rare incursioni di potenziali acquirenti e dalle visite, due volte alla settimana, di una prostituta. Abituato a quest’esistenza lontana da tutto, Beto non regge più il contatto con la vita frenetica della città: i suoi rari spostamenti fuori casa si trasformano in un vero incubo. La grossa dimora lo tiene prigioniero, ma al tempo stesso lo protegge dalla realtà del mondo esterno. Un bel giorno la casa viene finalmente venduta e Beto è costretto, suo malgrado, a partire. Il film si conclude con un atto folle e disperato attraverso cui l’uomo riesce a ristabilire, in maniera paradossale, il suo peculiare modo di vita.

Parque vìa ritrae una situazione di alienazione assurda e disumana in cui i vari personaggi si rispettano e si vogliono bene senza mai riuscire ad oltrepassare la linea di demarcazione tra le rispettive classi sociali. I dialoghi sono molto rari e si limitano allo scambio di poche parole. Tutto in questo film è chiuso, bloccato, impedito: se Beto è rinserrato nella grande dimora vuota, anche la sua padrona è prigioniera di un mondo di convenzioni sociali, rigide e insensate. Non meno spettrale è il suo lussuoso appartamento e la sua enorme macchina nera. Questa stessa intenzione si riflette anche nella sua pettinatura e nel suoi vestiti: tutto è stretto, serrato, severo, rigido. I tre personaggi principali, chiusi in se stessi, enigmatici, impassibili sono rappresentati fisicamente in maniera inquietante: il volto della signora è una specie di maschera mortuaria, la prostituta ha un corpo da lottatore e un volto maschile, Beto ha uno strano sguardo rivolto sempre un po’ verso l’alto e le mani stanche, deformate dall’artrosi. Anche la scenografia, dominata dagli elementi lineari dell’architettura domestica, riflette un'idea di ordine. In realtà pannelli, paraventi, tende sono i requisiti teatrali di una dimora lugubre metà prigione, metà mausoleo. Le sue grandi pareti di vetro sono delle aperture fittizie sul mondo perché il loro orizzonte è limitato dall’alto recinto che circonda la casa. Un altro schermo, quello della televisione, che non ci verrà peraltro mai mostrato frontalmente, è l’unico, perverso cordone ombelicale che collega il protagonista col mondo. Le voci implacabili degli speaker annunciano notizie orribili e raccapriccianti a non finire: guerre, catastrofi naturali, fatti di cronaca nera. Parque vìa è pervaso dalla prima all’ultima inquadratura dal presentimento della morte e, non a caso, una delle due uscite di Beto in città ha proprio luogo il giorno della festa dei morti.

In perfetta sintonia con il senso della storia Rivero costruisce il suo universo visuale sulla dicotomia di interno ed esterno. Gli interni, che costituiscono la maggior parte del film, sono filmati con delle inquadrature ben precise e calibrate, spesso la cinepresa è fissa e ci offre una visione pittorica delle stanze della villa. La fotografia illumina gli spazi con una luce fredda dalle tonalità grigio-blu che accresce la sensazione di vuoto. Gli esterni sono al contrario ripresi con una cinepresa estremamente mobile che segue il ritmo incalzante della folla mentre le luci multicolori dei locali notturni e la marea delle candele della festa dei morti vivifica i contorni brumosi e brunastri della città. Retto da una concezione della realtà disincantata e fatalista Parque vìa è un film meditativo, degno di nota  per il suo linguaggio preciso e minimalista e per la sua capacità di coinvolgerci in un mondo sconosciuto, innocente e spietato alla volta.

In La Forteresse Ferdinand Melgar ci propone un’immersione nell’universo di un centro di registrazione per richiedenti asilo politico a Vallorbe. Nonostante questa tematica sia di grande attualità, dopo l’inasprimento delle leggi sull’asilo votato recentemente in Svizzera, La Forteresse non è un film di denuncia. Il documentario abbraccia un periodo di due mesi, uguale alla durata della procedura per la richiesta di asilo. Senza insistere sui singoli casi, esplora il luogo di questo smistamento, tra guardiani, impiegati e cappellani che di fronte a situazioni umane spesso difficili provano emozioni intense e contraddittorie ma, soprattutto, fotografa il destino di questa gente proveniente da ogni angolo del mondo alla ricerca di una nuova patria.

Le diverse stanze del centro di registrazione diventano nel film altrettanti “confessionali”,  luoghi di incontro in cui il cineasta capta la parola di chi ci lavora e di chi, temporaneamente, ci vive. Si tratta di confessioni spontanee, di pensieri e di dialoghi fra i richiedenti e il personale, ma si tratta anche di dichiarazioni “obbligatorie”: le famose interviste ufficiali in seguito alle quali viene stabilito chi può restare e chi deve partire. In momenti di rara intensità la storia personale dei singoli richiedenti si concretizza davanti ai nostri occhi. Indimenticabile è la disperazione di un ragazzo africano che non trova più un senso alla vita dopo aver assistito al massacro dei suoi o il racconto agghiacciante di un padre colombiano che descrive il ritrovamento del cadavere mutilato del figlio.

Quando il dolore diventa insopportabile il cineasta introduce delle cesure sostituendo alle immagini dei volti, le im
magini del paesaggio innevato intorno al centro. Ma la vita a Vallorbe è fatta anche di piccole e grandi gioie: assistiamo alla nascita di un bimbo, ai giochi di pallone dei ragazzi, a una messa festiva e liberatoria organizzata dalla comunità africana. Non mancano neppure dei momenti comici come la scena in cui il direttore si improvvisa Babbo Natale o quella in cui tutti cercano di liberare i piedi di un richiedente dagli stivali troppo piccoli.

In questa struttura bipartita, richiedenti da un lato, personale  dall’altro, Melgar riesce ad evitare la tentazione di una visione manichea e semplicistica. Il suo sguardo non è di parte, ma spazia da un campo all’altro senza pregiudizi, privilegiando i momenti di incontro e di scambio e sa farci vedere le qualità e i difetti degli uni e degli altri in uguale misura. Il più grande pregio di questo documentario è senz’altro l’atmosfera di intimità e di fiducia che Melgar è riuscito a stabilire con le persone filmate. Le testimonianze sono talmente naturali e spontanee da farci completamente dimenticare la presenza della cinepresa. Tutto ciò è il frutto di un lungo e paziente lavoro di preparazione e di presa di contatto e di impegno nel non mostrare il film nei paesi d’origine dei testimoni.

Senza dubbio però la scelta più peculiare di La Forteresse è la sua volontà di renderci quest’esperienza con un linguaggio cinematografico proprio di un film di finzione, girato in maniera tale da smussare completamente l’impressione “documentaristica” delle riprese sul vivo. Dall’assenza di interviste e commenti esplicativi in voce off, alla fotografia magistrale che riesce a filmare in maniera suggestiva un luogo in sé freddo e sinistro come Vallorbe, tutto contribuisce a rafforzare questa sensazione. Ma è soprattutto il montaggio che cancella ogni asperità nei passaggi da una scena all’altra ordinando in maniera organica un materiale di 150 ore in 100 minuti di film. Sapienti sono anche le inquadrature: l’uso frequente dei primi piani non è mai invadente o indiscreto. Melgar si avvicina ai suoi personaggi per ascoltarli, non per sottoporli a un interrogatorio: a differenza dei vari talk-show in cui l’intimità è fatta spettacolo, in questo documentario lo spazio fra chi filma e chi è filmato è un luogo di confidenza, di comunicazione e di rispetto reciproco. La Forteresse ci offre un grande affresco umano senza prese di posizione aprioristiche, osservato con uno sguardo sensibile e animato da un profondo umanità: una vera lezione di tolleranza.

    PALMARES 

Nonostante un leggero calo del 3% delle entrate dovuto alla pioggia e all’assenza di alcune “star” come Agelica Huston e Michel Houellebecq il bilancio del 61esimo Festival di Locarno è stato, da un punto di vista artistico, nettamente positivo. In special modo i film in competizione ci hanno riservato molte sorprese degne di nota.

La scelta delle giurie sembra avere convinto anche il pubblico che ha applaudito con grande entusiasmo i vari vincitori durante la cerimonia di chiusura in Piazza Grande.

Il Pardo d’oro del Concorso Internazionale è stato attribuito ad un’opera prima, Parque vìa, del messicano Enrique Rivero, che descrive con rara maestria il destino  di Beto, un vecchio domestico indio. Il regista impiega elementi autobiografici e personaggi reali per creare un’opera altamente originale e dal significato universale confermando, a ragione, la fama di Locarno come luogo di scoperte di nuovi talenti.

Il Pardo d’oro del Concorso Cineasti del presente è stato attribuito ad un documentario, La Forteresse di Ferdinand Melgar: il film indaga la vita in un centro di richiedenti asilo politico in Svizzera. Melgar, figlio di emigranti e “clandestino” lui stesso durante la sua infanzia, ha voluto dedicare il suo premio al padre che ha vissuto per 20 anni in Svizzera senza mai potere votare.

Buono è stato anche il successo riscosso da Mar Nero di Federico Bondi, unico film italiano presente in competizione internazionale: la sua protagonista Ilaria Occhini ha ottenuto il Pardo per la migliore interpretazione femminile. Mar Nero ha inoltre vinto il primo premio della Giuria Ecumenica e il terzo premio della Giuria dei Giovani.

Questi sono stati i vari premi attributi: 

Concorso Internazionale 

Pardo d’oro e Premio Fipresci:  Parque Vìa di Enrique Ribero, Messico.

Premio speciale della giuria: 33 Scenes of life di Lagoska Szumowska, Germania/Pologna.

Premio per la migliore regia: Denis Côté  per  Elle veut le chaos, Canada.

Pardo per la migliore interpretazione femminile: Ilaria Occhini per Mar Nero di Federico Bondi, Italia/Romania/Francia.

Pardo per la migliore interpretazione maschile: Tayanç Ayaydin per The Market– A tal e of trade di Ben Hopkins, Germania/UK/Turchia/Kazakhstan.

Concorso Cineasti del presente 

Pardo d’oro : La forteresse di Fernand Melgar, Suisse.

Premio speciale della giuria : Alicia en el Pais di Esteban Arrain, Cile.

Pardo per la migliore opera prima: März  di Händl Klaus, Austria.

Pardi di domani (cortometraggi)

Competizione internazionale : Dez Elefantes, Eva Randolph, Brasile.

Competitzione nationale : La délogeuse, Julien Rouyet, Svizzera.

Premio della giuria dei giovani : Yuriev Den, Kirill Serebrennikov. Russia.

Premio Action Light : Au Café romand, Richard Szotyori, Suisse.

Premio della giuria ecumenica : Mar Nero, Federico Bondi, Italia/Roumania

Premio del pubblico UBS : Son of Rambow, Gart Jenings, Gran Bretagna.

Premio Variety Piazza Grande : Back soon, Solveig Ansprach, Islanda.

Se ti è piaciuto quello che hai letto, perché non lo condividi?
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.