Un matrimonio all'inglese (solita, pessima, fuorviante traduzione: Easy virtue è il titolo originale) di Stephan Elliot, regista australiano redivivo dopo il lontano Priscilla regina del deserto (1994), è stato presentato in concorso nell'ultima recente edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Non ha ottenuto alcun premio, eppure questa commedia sofisticata e graffiante meritava più attenzione. Tratta da una pièce teatrale degli anni Venti di Noel Coward, fu rivisitata in seguito da Alfred Hitchcock per un adattamento cinematografico. Lui ne fece un film muto. Ci si chiede come potè il grande regista inglese rinunciare a ciò che appare come il vero punto di forza del film di Elliot, ovvero i dialoghi.

Serrati, affilati, puntuali sono proprio questi a determinare il ritmo della pellicola e a rivelare le psicologie dei personaggi e delle loro relazioni. Nel film (ambientato negli anni Trenta) Jessica Biel (finora conosciuta soltanto per qualche fiction e un po' di gossip) interpreta magnificamente Larita, una ragazza americana di umili origini dall'oscuro e doloroso passato, appassionata di motori, estroversa e anticonformista. Sposa John Whittaker, membro di una nobile famiglia inglese che vive dentro una gabbia di soffocanti regole conservatrici, e quando i novelli sposi si trasferiscono nella grande tenuta della famiglia di lui, avviene il cortocircuito dal quale nascono contrasti irreversibili. L'irrompere a piè pari della disinvolta, disinibita Larita nelle abitudini della famiglia mette catastroficamente a confronto due modi di vivere antitetici: uno schiavo delle proprie tradizioni, bigotto, ultraconservatore impersonificato dalla signora Whittaker, madre del giovane (strepitosa interpretazione di Kristin Scott Thomas), l'altro anticonvenzionale, libero, incarnato dalla giovane americana.

Tra battute sferzanti e momenti di irresistibile comicità (la Biel che uccide accidentalmente il cane o lo scabroso can can), il film trascina lo spettatore in un ritmo vorticoso il cui motore non è l'azione, ma la parola, qui elevata al suo massimo valore espressivo. Con Un matrimonio all'inglese Elliot utilizza una formula collaudata e vincente per il genere: il dualismo suocera contro nuora, ma in questo caso il regista ha il merito di sostanziare il tema che acquista spessore in quanto rappresentativo di una più ampia conflittualità di tipo culturale (il tradizionalismo inglese contro la modernità americana), di classe (la prosperità economica della famiglia di John contro la mancanza di mezzi di Larita), sociale (l'opprimente familismo contro lo sradicamento e l'individualismo). Ad assistere a questa gustosa partita giocata a colpi di battute graffianti e humor corrosivo, un coro di personaggi azzeccatissimi che partecipano e parteggiano come l'introverso signor Whittaker (Collin Firth), reduce di guerra, che spara continue battute al vetriolo contro la propria famiglia.

Il tentativo di riconciliazione da parte di Larita impatterà contro l'ostinazione della suocera e la condurrà all'inevitabile scelta finale che riserverà una sorpresa. Il cupo paesaggio della campagna inglese dona al film un'adeguatissima atmosfera decadente nella quale vive la famiglia e forse tutta la società inglese di quegli anni, arroccate (siamo a cavallo tra le due guerre mondiali) e incapaci di cogliere i grandi sconvolgimenti internazionali.

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