E’ lecito inventare dei verbi nuovi?

Voglio regalartene uno: io ti

cielo, così che le mie ali possano distendersi smisuratamente,

per amarti senza confini

(Frida Kahlo)

di Alessia Brandoni/ Ci sono tre immagini che vorremmo mettere in premessa alla nascita di questo nuovo spazio di espressione e riflessione, immagini che prendiamo da tempi, culture e linguaggi differenti,  pensandole appunto come possibili e feconde interferenze con il presente.

La prima è quella di Antoine Doinel nel finale de I 400 colpi. La sua corsa verso il mare, dopo essere fuggito dal riformatorio. E in particolare pensiamo a due momenti, che sono insieme istanti e situazioni, percezioni e categorie del pensiero: il lunghissimo piano sequenza che segue la corsa imprevista di Antoine, dove nel rossore/punctum che appare pian piano sulle guance sempre più accaldate si scorge la fatica e l’ardore della sua scelta; il suo arrivare sulla spiaggia e guardare il mare, l’esitazione e il tornare indietro per qualche metro, il suo sguardo verso ciò che ha lasciato, che è anche il passato, e verso la mdp, che nel linguaggio del cinema sta ad indicare lo spettatore. Così che in noi spettatori che guardiamo quel fermo immagine di un ragazzo in bilico su molti mondi, finisce per salirci lungo schiena un brivido o forse di più, un senso di vertigine… Detto altrimenti,  per quel blocco di immagine-tempo in cui necessità, libertà e responsabilità si aprono all’ambivalenza della scelta e alla dialettica del tempo. Quello sguardo in macchina ci rende testimoni. Non si può fuggire. Se non finendo tra i miserabili. Con una inquadratura Truffaut (e prima di lui, per quanto ricordiamo, Bergman in Monica e il desiderio) ha ingrandito il cinema e ha fatto diventare grandi anche noi. Se è vero che il mito è una forma con cui si fonda un sistema di valori, se proprio per questo è anche sempre stratificazione di senso, ebbene il nostro mito -lo si è capito ma per molti ammalati di cinema tale è la gioia di poterlo rinominare che per una volta evitiamo di decretarci in censure- è ancora e di nuovo Antoine Doinel.

La seconda immagine si connette con la prima. Ed è un altro grido di pietà e di libertà, di offensiva contro il tempo mitico degli oppressori e a favore delle possibilità non date, inespresse e potenziali, dell’immagine che quel potere ha invece trasmesso e impresso, selezionato ed escluso. “L’Angelo di Klee guarda angosciato il passato, mentre il vento, il tempo della storia lo spinge via, quando vorrebbe restare tra quelle vittime per tenerle strette a sé, per garantire ad esse un significato di qualche tipo”; Walter Benjamin immagina che lo stesso Angelo dall’attuale ritorni poi nel passato per metterlo in opera dialetticamente: con le sue ali sempre impigliate nel tempo, l’Angelo apre un varco alle possibilità inespresse di quella immagine (della storia e del tempo) immaginando la forma di futuri possibili. In Novecento chissà se Bertolucci ha pensato a questo moto/punctum, alla pietà per le vittime di una storia violenta e insensata, quando nello scolpire il suo folgorante inizio, decide di mostrarci la morte di un partigiano e di un ragazzo in un tempo che si fa anche istanza politica e simbolica: un ragazzo cammina a ritroso del corso di un fiume quando una raffica di mitra sparata nella nebbia da un militare fascista in fuga lo colpisce, il partigiano trova la forza per tornare indietro, lungo la direzione che il fiume prende verso il mare, annunciando ai compagni contadini, con il suo corpo che muore, che la guerra è finita. Era il 25 aprile 1945.

La terza, ma la prima ad essere stata raccontata, è quella di Cristo che chiede all’incredulo Tommaso di mettere il dito nella ferita che ha sul costato: dopo la passione, Gesù vuole essere riconosciuto come Cristo, il figlio di Dio. Con la vista ma soprattutto con il tatto. Metafora della necessità umana di riconoscimento che può accadere a partire da un corpo, da un volto, da una ferita, da una passione che proprio per via dell’esporsi allo sguardo degli altri ha posto le condizioni per due scelte quanto mai attuali: avere fiducia, che vuol dire anche pensare, e farsi testimoni. In rapporto con l’altro. Che è anche il tempo presente. Vissuto e pensato. Raccolto e accostato. Immaginandoci di stare nel buio di una sala montaggio in cui l’autore ha abdicato alla sua corona. Mentre davanti scorrono tutti insieme i volti infiammati di Giovanna d’Arco e di Camille Claudel, i pensieri storici e transtorici di Dreyer e di Dumont, l’impensato artistico che in un accesso di reattività sotterra il capro espiatorio e apre il varco al formarsi di un nuovo, rivoltoso mito.

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