Chi l’avrebbe mai detto che l’oscuro marito di Madonna degli anni Ottanta sarebbe diventato uno degli artisti più sorprendenti di Hollywood? Sean Penn, dopo aver firmato la regia di quell’Into the Wild che ha emozionato le platee di tutto il mondo, torna con un’interpretazione strepitosa in Milk di Gus Van Sant. E partiamo proprio dal protagonista, ancora prima del regista, perché Milk è soprattutto Sean Penn, senza il quale probabilmente il film non avrebbe avuto lo stesso valore. Nell’interpretare il ruolo di Harvey Milk, primo uomo dichiaratamente gay ad assurgere ad una carica istituzionale negli Stati Uniti, ucciso il 27 novembre del 1978, in un’America molto lontana da quella di oggi (e semmai molto più vicina a una certa Italietta odierna), Sean Penn ci regala (e si regala) un ruolo da Oscar, riuscendo a far rivivere sullo schermo il vero Milk con una naturalezza e una bravura fuori dal comune. Ne incarna al contempo la delicatezza e la testardaggine, la serenità e le ombre recondite, senza lasciarsi andare a patetismi di sorta, dove ogni suo gesto non è mai sopra le righe né troppo timido.

Anche la regia sembra mettersi al servizio della grandezza dell’attore e, non a caso, Gus Van Sant sembra abbandonare gli sperimentalismi dei suoi film più recenti, pensiamo a Elephant e Last Days, ma anche al recentissimo Paranoyd Park, per dare vita a un film la cui struttura presenta un impianto maggiormente classico.

 D’altronde Milk è pur sempre un film di Gus Van Sant, la cui firma d’autore è ben presente e riconoscibile. Pensiamo alla scomposizione dell’immagine in tanti riquadri diversi e in stile pop art per indicare il passaparola telefonico della comunità gay, e soprattutto alla predilezione per l’uso del colore, che gli deriva dalla sua passione, anche praticata, per la pittura. Quel colore, variopinto e “acceso” tipico delle pellicole psichedeliche degli anni ’60/’70 così frequente nel film, non risponde soltanto all’esigenza di amalgamare materiale girato e immagini di repertorio, ma soprattutto ricostruisce le sensazioni, le ambientazioni e finanche i sapori di un’intera epoca, quella della San Francisco anni Settanta, fatta di godimento e lotta, di sesso sfrenato e presa di consapevolezza, da parte degli omosessuali, della propria identità. Il timido e quasi insignificante Harvey Milk scende in politica per dire al mondo Io ci sono, quella politica che, come afferma lui stesso in una battuta del film, è come il teatro, e il teatro è il mezzo attraverso cui l’uomo comunica al mondo la propria presenza, il proprio esserci. Ecco perché la comunità GLBT (gay, lesbian, bisexual and trans) americana si affida a lui, perché attraverso lui, ha finalmente la forza di affermare, senza più paura o imbarazzo, il proprio esserci nel mondo. E’ questo anche il senso della registrazione di un’audiocassetta in cui Milk, poco prima di morire, racconta se stesso e la sua vita, non solo presagio di morte, ma memoria e traccia del suo esserci stato, similmente al ruolo che assume la scrittura della lettera del ragazzino skater di Paranoid Park per prendere consapevolezza di quello che ha fatto e delle ragioni per cui è avvenuto ciò che è avvenuto.

Gus Van Sant rivoluziona il genere del biopic evitando ogni ripiegamento agiografico e patetico, dichiarando fin dall’inizio del film che il protagonista morirà, non ricorrendo al pathos dell’incertezza, ma all’implacabilità degli uomini e degli eventi. E così, implacabilmente, segue il suo protagonista dall’inizio alla fine, ripercorrendone la tenacia della vita pubblica e i fallimenti nella vita privata, ma senza mai sfruttare furbamente la carica drammatica di molti pezzi della sua biografia. L’implacabilità della vicenda deriva proprio dal suo dispiegarsi quasi chirurgico, inevitabile, senza quella facile empatia tra regista e personaggio che ne avrebbe ridotto la portata.

Ed è per questo che è ancora più sorpendente la commozione che ti prende alla fine del film: non te l’aspetti, perchè sai già che morirà eppure ti assale, così, senza fragore, silenziosamente, come silenziosa è la marcia degli omosessuali la sera dell’assassinio di Milk che il regista cattura allargando via via il campo della macchina da presa fino a far diventare quell’insieme di persone una miriade di luci piccolissime ma vive. Per dire: noi ci siamo.

Una commozione che non dimentichi più. Ciò che probabilmente fa la differenza, e fa di un film, un grande film.

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2 commenti su “Per Harvey Milk uno Sean Penn da Oscar

  1. davvero complimneti per la recenzione!!!
    questo film è un esempio di come si possa rapire lo spettatore , incantandolo per ore ad osservare ogni gesto dei protagonisti ..
    un film duro con più di un significato,riguardanti sicuramente il disagio degli omosessuali negli stati uniti degli anni ’70, ma anche l’evoluzione di un uomo che alla soglia dei 40 anni decide di cominciare a fare qualcosa e …farà qualcosa di veramente grande.
    il personaggio descritto rende orgogliosi di essere uomini. un uomo che riesce da solo ad abbattere le vere perversioni dell’essere umano!

  2. …e di una recensione una pagina che ha l’essenzialità e l’analisi puntuale di uno sguardo sensibile. Complimenti Vincenzo!

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