Il dottor Loomis – un Malcom McDowell in forma smagliante – mostra su uno schermo la foto in primo piano del piccolo Mike alla sua classe di aspiranti psichiatri: “Guardatelo attentamente: questi sono gli occhi di uno psicopatico!” Ma nell’istante stesso in cui pronuncia l’asserzione, con mirabile slittamento semantico, Zombie decide di inquadrare il particolare dello sguardo liquido e folle dello stesso McDowell e il drugo Alex sembra risvegliarsi dal torpore in cui la nazi-democratica rieducazione “Ludovico” lo aveva confinato più di 35 anni prima. L’anima maledetta di questo piccolo capolavoro, allo stesso tempo prequel e remake del classico Halloween – la notte delle streghe, diretto nel ’78 da John Carpenter e diventato uno dei film indipendenti più di successo della storia del cinema, si potrebbe già riassumere a partire da questa sequenza di sontuosa cinefilia e di viscerale devozione all’epica di Michael Myers, serial killer capostipite nell’immaginario del cinema slasher.  

Proiezione per pochi intimi questa pomeridiana di Halloween – The Beginning a cui ho avuto modo di assistere, a distanza di poco più di una settimana dall’uscita nelle sale. Il cinema consapevolmente autoriale di Rob Zombie pare condannato dalla distribuzione italiana a un eterno destino di nicchia, un interregno posto solo mezzo piano sopra l’inferno delle uscite agostane degli horror di serie z. Si pensi soltanto che sui manifesti pubblicitari qui da noi il nome del povero Rob non è stato neppure riportato, sostituito dall’intramontabile quanto ingannevole formula del “presentato da”, associata di volta in volta al nome di un produttore o di un altro regista di maggior popolarità a garanzia di un’operazione distributiva altrimenti considerata rischiosa.  Se in questo caso la griffe era legittimamente quella di Carpenter in quanto artefice della saga, la scelta di omettere il nome del regista-attore-musicista si è rivelata miope e una volta di più sintomatica di quanto l’industria cinematografica italiana non conosca i propri polli. Sarebbe bastata un’inchiesta tra i giovani freaks metropolitani – metallari, gotici o punk – potenziali horror followers di ogni sorta, per avere la conferma che, laddove il premiato marchio John Carpenter è in grado di evocare  tutt’al più nostalgie cinefile nei più preparati, un accenno al ruolo creativo di  Rob Zombie, idolo minore, ma accostato spesso a Marilyn Manson nel pantheon della scena musicale alternativa Usa, avrebbe potuto risvegliare dall'apatia i satanici spiriti dei kids e muoverli a raccolta al cinema per un sanguinolento e propiziatorio sabba a base di pop corn e forti emozioni.
 Fatta questa indispensabile premessa – mette sempre a disagio assistere a un bel film in una sala semi-deserta – accenniamo all’oscura e palpitante materia con cui il film è plasmato. La struttura narrativa è insolitamente duale, e la doppia partizione è rivelatrice di una scelta di programmatico equilibrio tra il rispetto filologicamente corretto e quasi ossessivo dell’archetipo carpenteriano da una parte, e la reintepretazione autoriale della saga di Michael Myers dall’altra. Poco meno di metà film ne costituisce lo sconvolgente  prequel, il vero coniglio nel cappello del mago Zombie, dove lo stile sporco ed espressionista e il gusto videografico per l’inquadratura trovano pieno diritto di cittadinanza in un ambito congeniale all’invenzione narrativa del regista. A partire dalla definitiva prigionia di Mike comincia il remake vero e proprio del primo capitolo di Halloween, un omaggio intelligente ma necessariamente più convenzionale all’elegante stilizzazione sottrattiva del prototipo, che rivela tutta la cultura e la passione da autodidatta di Zombie per il cinema dei mostri di ogni epoca.   

Il mito del futuro omicida seriale è ricreato interamente a partire da valutazioni di ordine socio-psicologico, presentando il contesto ambientale della cittadina di Haddonfield, dall’apparenza pacifica – in realtà un misto di squallore e ferocia – in cui il piccolo Mike Myers, madre lap-dancer e padre alcolizzato, è portato necessariamente a compiere un difficile processo di formazione costellato di torti e sopraffazioni. Una quotidianità e una prossimità del Male nel contesto sonnacchioso e fintamente rassicurante della provincia americana dal punto di vista dei giovani che non può che ricordare il Gus Van Sant di Elephant.
Lungi dall’ambizione di voler distillare perle di banalità psicanalitica pret-à-porter sull’origine eterodiretta della violenza individuale, Zombie decide di svelare l’infanzia difficile di Myers in funzione di una geniale decostruzione e ridefinizione del genere slasher-horror, a partire dalla revisione sistematica della dinamica di identificazione spettatore-vittima o piuttosto spettatore-assassino. Se il killer adulto, nei capitoli della serie fin qui realizzati, si manifestava con l’inesorabile spietatezza di una macchina mortale, un ente steminatore dai moventi imperscrutabili e mancante di qualsivoglia specifica qualità umana a partire proprio dall’espressione dello sguardo perennemente celato dietro una maschera, conoscere e guardare negli occhi il piccolo Myers e la sovvertitrice rivelazione del suo aspetto di esteriore normalità, non può esimerci dal venire a patti con la straziante consapevolezza di quell’umano-troppo-umano come radice dell’inclinazione al delitto.   
Scoperto un volto di bambino sotto la maschera del futuro mostro, insomma, salta all’istante quel patto di sottintesa alleanza tra spettatore e vittima nel riconoscere il male come altro-da-sé, mentre va ad instaurarsi un filo di com-passione sempre più saldo con la tragedia personale di Mike e della sua famiglia.

 Atto feticistico da sempre centrale nell’estetica del cinema di Zombie, il  mascheramento, la deliberata sottrazione alla vista delle proprie sembianze in luogo del rimodellamento grottesco e caricaturale, aldilà del gioco postmodernista di perdita e riacquisizione di identità liquide e multiple, assume qui una valenza ben più dolorosa e amara che nei due precedenti horror firmati dal regista. Laddove in House of 1000 corpses e in The Devil's Rejects, la maschera – nelle varianti di oggetto posto innanzi al volto, trucco sovrabbondante, o più direttamente come malformazione fisica palesata con disinvoltura – era adottata come segno di orgogliosa appartenenza attraverso cui un manipolo di freaks sadici e assassini potevano riconoscersi come affiliati alla stessa famiglia allargata e formare così una comunità solidale, nel caso di Mike Myers l’impulso crescente a indossare la maschera è una diretta conseguenza della disperata solitudine esistenziale percepita dal bambino di fronte alla quale non può fare altro che suggellare emblematicamente l’isolamento e il distacco dalla realtà esterna.  
A partire dalla presa di coscienza di questa alterità incolmabile, la progressione verso l’inevitabile esito drammatico acquista una forza dirompente, e le azioni omicide trovano riscontro in un disegno complessivo di castigo e di rivalsa nei confronti di una comunità dove, sotto il velo dell
’ipocrisia e del perbenismo borghesi, i rapporti umani appaiono corrotti e funestati dal tentativo di trarre in salvo istituzioni ormai vacillanti – Famiglia, Scuola, Chiesa, Ospedale, Carcere – tenute accanitamente in vita vegetativa allo scopo di soffocare l’individuo e perpetrare anacronistici status quo.
Il dramma della famiglia Myers e del piccolo Mike, dissezionatore di piccoli animali prima, assassino seriale poi, acquista così una dimensione emblematica che pone il film di Zombie ben oltre la semplice variazione sul tema di fornire un accattivante  prologo a una classica saga horror.  Un cinema, quello di Rob Zombie, strenuamente e romanticamente schierato dalla parte dei Mostri: perdenti e freaks che popolano irriducibilmente le riserve liminari tra i non-luoghi del consumo, auto-esiliati in una società asettica e tecnocratica e materia umana per sempre nuove discariche sociali.  

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