Nel vedere l’ultimo, osannatissimo, orso d’oro alla Berlinale 2016, documentario di Gianfranco Rosi, uno degli aspetti che colpisce lo spettatore è di fatto la struttura articolata su due film paralleli. Da un lato, la tragedia dei migranti e l’incessante attività della Marina italiana, di forze dell’ordine e personale medico. Per trovarli, prima di tutto, in mezzo al buio più profondo della notte, guidati dalle voci disperate che chiamano con cellulari chiedendo aiuto in nome di Dio e spesso non ce la fanno, e la loro morte è solo l’ennesimo bollettino radiofonico. Per caricarli a bordo, vivi o in fin di vita, con bambini e donne in avanzata gravidanza, identificarli, curarli, nutrirli e sistemarli nel centro di accoglienza. O per chiuderli in dei sacchi neri e seppellirli senza nome.

Dall’altro lato, l’isola di Lampedusa, nella sua quotidianità invernale e piovosa (bellissime le immagini del paesaggio a colori lividi), e alcuni dei suoi abitanti. Un ragazzino che si fabbrica la fionda da solo e va sul pontile “a farsi lo stomaco” perché, pur essendo figlio di pescatori, soffre il mal di mare. Sua, nonna, lo zio pescatore, un’anziana coppia, un silenzioso sub che va a caccia di ricci, il conduttore della radio locale che mette canzoni siciliane a richiesta, e con dedica, degli ascoltatori.

Da quando è entrata in vigore l’operazione “Mare Nostrum”, spiega Rosi, i migranti vengono intercettati e soccorsi in alto mare e per gli abitanti dell’isola, che in passato li hanno sempre accolti con grande umanità quando i barconi arrivavano direttamente sulle loro spiagge, sono diventati dei fantasmi, ci sono ma non si vedono. Di qui la decisione di seguire le vite parallele di chi su quei 20 chilometri quadrati più vicini all’Africa che all’Italia ci vive e chi invece ci passa soltanto, alla ricerca di altro.

E qui cominciano i guai. Perché se comunque è meritoria l’operazione di portare su uno schermo enorme e in una sala buia (quindi con l’impatto emotivo che meritano e che invece su di noi sembrano aver perso col passare del tempo e in centinaia di telegiornali) le immagini dei barconi fatiscenti e le operazioni di salvataggio della marina, giocoforza lentissime a causa del numero di migranti della difficoltà di trasportare malati e svenuti da una barca all’altra, da questo punto di vista il film non ci racconta niente che non sappiamo già. L’umanità e la professionalità del personale civile e militare italiano, la disperazione e la speranza di centinaia di visi dalla pelle di centinaia di sfumature diverse, che noi chiamiamo sempre Africa. Li vediamo in primo piano, le loro lacrime, l’incapacità di parlare per lo choc subito, vediamo corpi esanimi e tremanti, che non sappiamo se ce la faranno, e i mucchi di cadaveri della “terza classe” (si, anche le carrette del mare hanno classi a seconda di quanto ti puoi permettere di pagare) che riecheggiano la sinistra (e ricattatoria?) estetica dell’olocausto. Fuocoammare è in questo senso un film assolutamente necessario, ma più necessario per un pubblico straniero, che ben poco sa di quello che succede qui alla periferia dell’impero.

Poi però li vediamo che giocano a calcio spensieratamente al centro di accoglienza, facendo anche una sorta di torneo “Coppa d’Africa” tra varie nazioni, esultando per i gol, e qualcosa comincia a incrinarsi, così come nel “rap” cantato da un nigeriano in inglese che ripercorre la tragica odissea dalla partenza all’arrivo in Italia. Sappiamo che Rosi ha passato oltre un anno a Lampedusa, familiarizzando e stringendo amicizia con i suoi abitanti e con il personale della marina e medico, ha preso parte in prima persona a sbarchi drammatici ma per fortuna non sempre tragici come quello che invece sceglie (giustamente) di documentare. L’impressione tuttavia è che il regista, anche nei momenti più imprevisti in cui dovrebbe essere la realtà stessa a decidere cosa farti filmare o meno, in fase di montaggio non riesca a dimenticare il suo spettatore, anzi che ne faccia l’interlocutore privilegiato e continuo di un dialogo che si solleva al disopra dei personaggi e degli eventi filmati, organizzandoli contrappuntisticamente e consolatoriamente tra vita e morte.

Stato d’animo che si accentua notevolmente nel mondo parallelo dell’isola e dei suoi abitanti: malgrado la confidenza e l’amicizia che Rosi ha saputo sicuramente instaurare, non si sfugge alla sensazione sottile ma inquietante di una sorta di “messa in scena” dei personaggi nelle loro varie caratterizzazioni, sensazione che già ci aveva fortemente colpito e sorpreso in Sacro GRA e (anatema su di noi) anche nell’acclamatissimo Stop the pounding heart di Minervini, altro regista che convive lunghissimi tempi a contatto con i suoi “documentandi”. Viene il sospetto che un’eccessiva intimità e complicità tra il documentarista e la persona la cui storia vuole raccontare, non sia necessariamente un bene, che si sviluppi una corrente implicita di richiesta e di esaudimento. Sprazzi di autenticità permangono comunque grazie alla straordinaria umanità di Pietro Bartolo, direttore sanitario dell’Asl locale, che non perde il sorriso malgrado i morti che popolano i suoi incubi. E al fatto che il protagonista Samuele ha 12 anni e ancora mantiene quella naturalezza che è propria dell’infanzia, e riesce a non farsi soffocare dalle metafore che per stessa ammissione del regista, porta su di sé, a partire dall’ “occhio pigro” da curare, che sta a simboleggiare il nostro non voler vedere la tragedia dei migranti eccetera eccetera.

Per il resto le anziane signore cuciono e cucinano il pesce, baciano devotamente le statuine della madonna e rifanno i letti mentre in sottofondo si sentono bellissime canzoni siciliane, tra cui “Fuocoammare”. Una galleria di caratteri da vetero neorealismo, prevedibile e (ripetiamo) destinata a chi dell’Italia ha proprio questa idea, e non è un caso che a Berlino la stampa estera sia andata in delirio.

 

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2 commenti su “Fuocoammare – Perché no

  1. Cara Giovannella,
    apprezzo la tua recensione e in Sacro Gra avevo a tratti sentito anche io il rischio di una ricostruzione eccessiva nel pedinamento documentaristico della realtà. È una questione antica quella del limite e della distanza, ma credo che forse è anche a volte una questione che vuole incasellare il documentario in un genere distinto, in confini che forse non sempre sono così netti.
    Direi che anche per gli italiani (drogati da tanti reportage mordi e fuggi e da tanta disinformazione) quello di Rosi è un film necessario.
    A caldo avevo postato nel mio blog le righe che seguono, non una recensione, solo una breve eco dell’emozione che mi era rimasta dentro:
    Senza commenti in over voice né didascaliche spiegazioni, mostra il tempo che scorre tra i pini e gli scogli di Lampedusa, la vita quotidiana di un ragazzino, di cui il regista sfrutta benissimo la spontaneità, quella dei pescatori attraverso le canzoni a loro dedicate alla radio locale, i poveri interni dei lampedusani e intanto le voci disperate dai barconi registrate dalla radiomobile della guardia costiera.
    Un medico del locale pronto soccorso racconta del dovere di aiutare quella gente, del dolore nel vedere i bimbi morti, dolore cui non ci si abitua.
    Anche quando Rosi segue i soccorsi in mare, lo fa stando lì senza tante parole. Con immagini dure, partecipi, asciutte.
    È la nostra tragedia attuale, come per la generazione dei miei genitori la guerra. La viviamo un po’ da lontano, almeno per ora, poi ci rimbalza in casa con le schegge dei terrorismi, con i problemi dell’integrazione, con i razzismi e un odore di anni trenta europei che sale e spaventa.

    1. grazie per aver commentato, in realtà siamo abbastanza d’accordo sulla necessità del film, e come si potrebbe non esserlo? però essendo un film e non un reportage bisogna parlarne come un film, anzi come un documentario, e come tale io lo critico e ribadisco che nel suo modo di avvicinare le persone e trasformarle in personaggi (cosa che secondo me un documentario non dovrebbe fare), c’è una condiscendenza entomologica, forse non voluta, ma c’è.

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