[**1/2] – I Nemici pubblici, celebrità sgradite al sistema di potere costituito, generalmente raccolgono consenso e malcelata approvazione popolare. Il mito del bandito gentiluomo, riparatore di torti, che ruba ai ricchi per dare ai poveri, rifocilla nel tempo l’immaginario collettivo.
John Dillinger non ridistribuiva certo in beneficienza i proventi dei suoi colpi, ma nel pieno della prima crisi nera del capitalismo statunitense, con mezza America alla fame e la disoccupazione alle stelle, il suo esempio fornisce un’implicita risposta alla provocazione che riflette se sia più criminale rapinare una banca piuttosto che fondarne una. Non dissimilmente dallo sfascio finanziario attuale ben tratteggiato da Michael Moore nel suo duro e malinconico Capitalism – A love story, i caveau che Dillinger saccheggia ai tempi della Depressione, appartengono agli artefici principali di quel disastro; loro sì nemici impopolari, profittatori, avvoltoi, razziatori senza scrupoli del sudato risparmio della working class. Per di più, spalleggiati dall’eterno alleato: il braccio armato della Legge.
Così, la declinazione al plurale del titolo originale del film, Public Enemies, rimanda con pertinenza al nocciolo della questione: chi sono veri nemici pubblici? I gangster, i banchieri, la polizia che tortura?
Così la vicenda personale di John Herbert Dillinger, fuorilegge simbolo della Grande Depressione post ’29, e la struggente e contrastata storia d’amore con Miss Frechette, si inquadrano in una veduta più vasta, nel cui orizzonte entrano in campo temi cari al regista: l’alba della società del controllo e le tecnologie della sorveglianza, le ricadute sulla privacy, il ruolo ambiguo giocato dai mass media nell’equilibrio dei poteri e nell’accertamento della verità.

 Michael Mann si accosta alla figura del fuorilegge gentiluomo mosso da quello spirito indagatore della psiche di individui in condizioni estreme che l’ha ispirato lungo tutta la sua filmografia: una ricerca che tende a isolare e portare a galla forze interiori recondite, ravvisandone come portatori emblematici alcuni individui fuori dal comune, siano essi incarnazioni della Legge o senza-Legge. Nemico pubblico non sfugge a questo schema, presentandoci un sistema binario in cui il dualismo di comodo tra bene e male perde contrasto e si opacizza, per riplasmarsi in un confronto-scontro personale tra due figure maschili di spicco, dal carattere risoluto ma in fondo ambigue e sfaccettate, di cui ciascuna è al tempo stesso riflesso e nemesi dell’altra. Il bandito Dillinger trova così sulla sua strada Melvin Purvis (Christian Bale), suo doppio speculare, nel ruolo dell’agente speciale di una costituenda agenzia federale d’investigazione, la futura FBI.La camera a mano digitale di Mann, marchio di fabbrica perfezionato negli anni, sta loro addosso senza tregua, stringendo all’estremo il piano di ripresa con tagli stretti sui volti. La sua presa sghemba sulla realtà induce l’occhio dello spettatore a saettare lungo le traiettorie dei suoi disequlibrismi visivi. I cambi selettivi di messa a fuoco colgono con apparente accidentalità i micro-segni contradditori di un umano-troppo-umano, sotto l’apparente fermezza degli atteggiamenti, e stabiliscono relazioni transitorie e problematiche tra i personaggi e l’ambiente circostante.
Nonostante le migliori intenzioni, tuttavia, l’allestimento di questo action thriller storico non si discosta molto da una rappresentazione di maniera e Michael Mann, probabilmente l’interprete più lucido e innovativo del frame cinematografico post-contemporaneo, non centra per una volta il bersaglio. Gravato dal fardello del rispetto per la storia sociale americana e per le regole che presiedono la grammatica della mitografia, il cineasta resta intrappolato in un’operazione di retroguardia, in bilico tra la rilettura tardo-romantica della storia del genere gangsteristico e un impianto formale iper-realistico che però scivola sulla superficie, non si radicalizza mai al punto di rendersi strumento euristico, endoscopia dirimente del dato di realtà.

 Nelle intenzioni Nemico Pubblico doveva segnare il passo come un film in cui il qui-e-ora del racconto aderisse perfettamente al presente storico del film, determinando un effetto “macchina del tempo” in cui lo spettatore fosse cinenauta e crononauta partecipe piuttosto che osservatore compiaciuto di una nostalgica messinscena d’epoca. La sfida era ripercorrere le gesta di Dillinger smontandone l’impalcatura epica e paracadutando lo spettatore al centro nevralgico dell’azione come un incauto inviato embedded. Per intensificare il senso di realtà della rappresentazione e agevolare l’entrata nei rispettivi ruoli, perfezionista nei dettagli fino all’ossessione, Mann è arrivato a procurare a Johnny Depp vestiti e accessori personali che erano appartenuti al vero Dillinger. L’attore maneggia armi autentiche che il bandito aveva adoperato e nella creazione degli ambienti si è scelto di girare ove possibile nei luoghi in cui la vicenda storica si è svolta.
Il cinema di Mann, improntato da sempre su una ricerca stilistica che mette in crisi, sovraccaricandone i significati, i sistemi simbolici costitutivi dell'evento filmico, si configura come una poetica dell’infra-visto, disvelando la natura ambigua dell’inquadratura come chiave d’accesso all’indeterminatezza dell’agire umano e al polimorfismo del reale.
Questa sua modalità di trasformare sotto i nostri occhi l’ethos del mezzo cinematografico in un senso aggiuntivo del nostro sistema percettivo; l’uso creativo, di estrema suggestione visiva, di un digitale HD leggero e pulviscolare perfettamente calibrato sulla frammentarietà di derive metropolitane contemporanee, l’attività frenetica e destabilizzante del suo segno espressivo, in Nemico pubblico si scontrano con la linearità di un tracciato narrativo convenzionalmente storico-biografico, che vincola pesantemente le spinte centrifughe e le possibilità di sfasature prospettiche attorno alla geografia dell’azione principale. Così la complessa aritmia espressiva del regista arranca, rimanendo espediente esteriore e lo spettatore smaliziato non potrà fare a meno di cogliere i troppi tempi morti, una certa prevedibilità nei dialoghi, una caratterizzazione indefinita dei ruoli secondari, un finale forzatamente dilatato che non cambia le carte in tavola, se non fosse
per due colpi di coda che riconcilieranno il regista con il suo pubblico più esigente.

 Mi riferisco al tormento meta-filmico di Dillinger, spettatore partecipe del destino di Blackie-Clark Gable , suo doppio di celluloide, che preannucia l'incombente martirio del bandito, e soprattutto alla deriva psico-geografica e surreale che lo condurrà, ormai apertamente ricercato, fin dentro la sede della squadra di Polizia che gli sta dando la caccia. Già quasi fantasma, il nemico pubblico numero uno si aggira indisturbato negli uffici della Legge semideserti e fissa le foto sulle pareti che ritraggono gli elementi del crimine.
Tutta la sua vita è là, fermata in quegli scatti. Il libero arbitrio ha le ore – gli anni – contate/i. Verrà un tempo panottico che costruirà profili perfetti solo incrociando dati, e allora non servirà più la fotografia, né il cinema. Ma per ora la preda Dillinger osserva se stesso attraverso gli occhi analogici del suo predatore, mentre l’attore protagonista Johnny Depp, e per suo tramite il regista stesso, osserva il suo Dillinger digitale come il progetto avanzato per un film incompiuto.

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