Rigoroso, poetico, enigmatico ed affascinante, Music di Angela Schanelec, presentato in concorso alla Berlinale, smonta un mito e lo ricostruisce in un film onirico e sensoriale alla volta. Portatrice di un modo di fare cinema esigente, terso ed essenziale, assolutamente unico nel suo genere nel quale traspare un tocco teatrale – non bisogna dimenticare che Schanelec prima di dedicarsi al cinema ha lavorato per molti anni come attrice a dei progetti teatrali-  Angela Schanelec è senza dubbio un auteur nel vero e proprio senso del termine. Presente più volte con diversi film alla Berlinale dove nel 2019 ha vinto L’orso d’argento per la migliore regia con Ich war zu Hause aber, un film ambientato nella sua citta Berlino, la regista ritorna quest’anno con la sua ultima pellicolagirata quasi nella sua totalità in Grecia ad eccezione di una piccola parte- la sua parte finale- ambientata a Berlino. Music è un film sulla vita, sull’amore e su quei vincoli di sangue così intimi e complessi da sprofondare nelle radici più lontane dei nostri miti ed archetipi. Il film è caratterizzato da una forma ellittica del racconto, che diventa a tratti criptico, affidando i nessi narrativi più che ad una struttura tradizionale di causa ed effetto alla forza evocativa delle immagini e ad una serie di epifanie blandamente collegate fra di loro.  I dialoghi sono pochi e rarefatti. Più che alla parola, la comunicazione è affidata alle note della musica che attraversa il film e alla potenza emotiva del canto che sgorga limpido e toccante dalla gola di Ion, il protagonista. L’immagine viene catturata attraverso una serie di inquadrature fisse, con una predilezione per i piani larghi che abbracciano l’insieme del paesaggio in cui si svolge l’azione, mentre dei piani medi ci permettono di scrutare i corpi e i volti dei protagonisti. Unica eccezione a questa regola è l’ultimo piano sequenza del film, un lungo carrello laterale che si sposta lungo la sponda di un fiume, da destra a sinistra, mentre l’obiettivo segue un gruppo di personaggi – i protagonisti del film e i loro amici – sulla sponda opposta osservandoli camminare, allegri e spensierati, sotto il sole di una bella giornata estiva berlinese. Angela Schanelec trae la sua ispirazione dal mito di Edipo ma lo rielabora in una maniera luminosa, piena di grazia e di speranza. Ion, il personaggio che rappresenta Edipo nel presente, non perderà mai completamente la vista, lo vedremo solo portare degli spessi occhiali da miopia nell’ultima parte del film e non capirà mai, a differenza della figura mitica, di avere sposato la sua madre, né lo capiremo chiaramente noi spettatori- anche perché la regista decide di confondere le piste, scegliendo come interprete di questo ruolo un’attrice molto giovane, la splendida Agathe Bonitzer, coetanea del suo personaggio chiamato Iro nel film, che difficilmente potremmo identificare con il personaggio di Giocasta.  L’incipit della vicenda è misterioso e cruento al contempo; sul versante impervio e roccioso di una collina vediamo delle figure muoversi indistintamente nella notte e sentiamo l’urlo straziante di una donna che, forse, partorisce. Il mattino dopo un uomo sulla trentina con dei grossi occhiali da miopia, giace sul suolo. Ha sbattuto la testa su una pietra ma è ancora vivo. Si sente il sole bruciare sul suolo brullo di un paesaggio mediterraneo. Nel frattempo un’ambulanza e una macchina della polizia avanzano lentamente su un cammino tutto curve di terra battuta per raggiungere il luogo dove si trova l’uomo ferito. Poco dopo, in un posto che s’intuisce essere lì vicino, in un ovile di pietra, un medico scopre un neonato abbandonato e lo porta in salvo affidandolo, in seguito, ad una coppia del paese che non ha figli. È difficile stabilire una cronologia plausibile, potremmo essere negli anni settanta ma potremmo essere anche agli inizi degli anni novanta a giudicare dai vari accessori, come un mangiacassette, che vedremo nelle scene seguenti, i piani temporali del film si fondono e si susseguono senza soluzione di continuità. Anche a questo livello Schanelec ama confondere le carte in tavola, mischiando liberamente tempi e personaggi. Più che la linea narrativa in sé, sono le sensazioni che emanano da ogni singola scena ad essere importanti. Le immagini che la regista ci offre non chiedono di venire interpretate, chiedono piuttosto di venire accolte, assorbite con uno spirito libero da schemi preconcetti. Bisogna lasciarsi andare, abbandonarsi alla magia misteriosa di questi paesaggi brulli, delle coste frastagliate, del mare blu e lucente sotto i raggi del sole, dei corpi agili dei giovani protagonisti che sembrano muoversi ed agire come in uno stato di trance, assenti quasi a sé stessi. La recitazione è tutt’altro che naturalista; nei gesti e nelle parole, rare, tutto avviene senza fretta, con un certo distacco, senza eccesso di pathos.  Nella sequenza seguente, siamo sempre in piena estate, una vecchia macchina con tre ragazzi ed una ragazza a bordo, ha un guasto se si ferma nel bel mezzo di un paesaggio semidesertico in riva al mare. Tre di loro decidono di approfittare di questa sosta forzata per bagnarsi in una caletta vicina. La cinepresa li segue mentre si inerpicano su un sentiero per raggiungere la spiaggia e si attarda a filmare i loro corpi nell’acqua. Di fatto però l’azione principale si svolge intorno alla macchina dove uno di loro, Ion, è rimasto a riposarsi; una sorta di malattia cutanea alle caviglie e ai piedi gli impedisce di camminare e di arrampicarsi sulle rocce come i suoi amici. Restato lì ad aspettare, il ragazzo verrà abbordato dallo stesso uomo con la spessa montatura di occhiali che abbiamo visto ferito nella sequenza iniziale del film. Il ragazzo rifiuta le avances sessuali dell’uomo e spingendolo lontano da sé, lo fa involontariamente cadere. Questa volta la caduta sarà fatale ed il ragazzo, incolpato di omicidio, verrà condotto in uno strano carcere custodito da sole donne. Tutte queste azioni vengono portate principalmente dalla mimica, dai gesti e la trama si costituisce facendo appello alla nostra intuizione. Fra le guardie del carcere spicca Iro, una ragazza, mite e silenziosa dai lunghi capelli rossi; si prenderà subito cura del giovane convitto, comprandogli bende e medicinali per alleviare il dolore dei suoi piedi piagati. Le cicatrici dei piedi guariscono ma il dolore nell’animo del ragazzo, omicida suo malgrado, resta. La giovane donna gli offrirà sostegno ed aiuto prestandogli un registratore con delle cassette di musica barocca. Un giorno una sorta di miracolo occorre ed il ragazzo inizia a cantate una di queste arie con una voce struggente dando un nuovo senso nella sua vita. La simpatia fra i due giovani si trasforma ben presto in amore. Quando Ion viene rilasciato, i due decidono di vivere insieme. Li vedremo condividere placidamente un piccolo appartamento in città. La loro felicita verrà ben presto coronata dalla nascita di una bimba. Gli anni passano serenamente, finche un giorno Ion esprime il desiderio di ritornare sulla sua isola natale, luogo dell’incidente mortale, spinto dalla nostalgia per i suoi genitori che non ha più visto da anni. Un po’a malincuore la ragazza accetta e i tre s’imbarcano in un viaggio dall’esito fatale. Sul luogo un passato turpe si farà strada nella sua mente di Iro che un giorno si getterà in mare, dall’alto di una rupe, lasciando Ion e la loro figlioletta nello sconforto più assoluto. Questa parte, nonostante la tragedia con cui si chiude, è la più calorosa e luminosa di tutta la pellicola. Schanelec filma i suoi personaggi con infinita delicatezza e con un tocco documentario. Le scene girate nel cortile della vecchia casa di villaggio dove abitano dei genitori adottivi di Ion sono delle vere miniature di felicita in cui traspare tutto l’affetto che gli portano; i raggi del sole giocano fra il verde delle foglie di un grosso albero che con la sua ombra li protegge dal caldo mentre sono intenti a sbucciare dei melograni rossi sangue creando un suggestivo quadro impressionista. L’ultima parte del film, dopo il suicidio di Iro, costituisce una netta cesura spazio-temporale rispetto al resto della pellicola. Improvvisamente siamo catapultati nella Berlino di oggi. Le scene in esterno sono state filmate proprio nei dintorni della Berlinale. Phoebe la figlioletta di Ion e Iro è ormai un’adolescente mentre Ion si dedica professionalmente al canto. La scena in cui Ion ripete una canzone originale di Doug Tielli in portata dall’interpretazione viscerale di Aljosha Schneider ci trascina in un immenso vortice di emozioni e tocca il sublime. Edipo non perderà la vista, si riscatterà con la forza redentrice della musica, continuando a vivere al di là della sofferenza, della colpa e della morte in un presente serenamente compiuto. Inutile cercare le tracce precise del mito in Music, il film interpreta, ricrea il mito con un gesto profondamente ispirato, riuscendo a crearne una nuova versione meravigliosamente delicata e poetica. Angela Schanelec è stata ricompensata con l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura.

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