Il marchio di fabbrica inconfondibile, A Spike Lee Joint, in inglese gioca sul filo dell’ambiguità: Joint è collettivo, ma anche canna di fumo/erba. In questo secondo caso, verrebbe da aggiungere: “una di troppo, e bella grossa per giunta!”. Non si giustificano altrimenti le imbarazzanti dichiarazioni che Mr. Lee ha offerto in pasto ai plenipotenziari dell’ormai folta schiera del giornalismo revisionista-fascista nostrano, in occasione della conferenza stampa tenutasi a seguito dell’anteprima italiana di Miracolo a Sant’Anna.
Andiamo con ordine.

Il film, tratto dal romanzo omonimo di James McBride e girato quasi interamente in Toscana con un cast internazionale, narra le vicende di un gruppo di Buffalo Soldiers, militari afroamericani in forza alla V° armata dell’esercito degli Stati Uniti, intrappolati oltre le linee nemiche e venuti in contatto con la popolazione locale, dopo che uno di loro ha rischiato la vita per portare in salvo un bambino italiano. Sullo sfondo, una delle più atroci vicende della seconda guerra mondiale: il massacro premeditato dell’intera popolazione di S. Anna di Stazzema in Versilia, 560 civili indifesi, per mano delle SS naziste, il 12 agosto 1944.
Per sgombrare il campo dagli equivoci diciamo subito che Miracolo a Sant’Anna non vuole essere un film sulla Resistenza. L’interesse di Spike Lee si concentra come di consueto sulla sua gente, sulla comunità nera statunitense, e il film non è che il racconto di un rimosso (questo sì) della storia Usa, una tappa sulla strada del faticoso processo d’emancipazione della popolazione afroamericana, i membri della quale, nel corso di poco più di un secolo, sembrano acquistare e perdere di volta in volta lo statuto di cittadinanza con pari dignità, assecondando i calcoli politici e gli interessi, in questo caso bellici, della  classe dirigente bianca (già dopo la guerra civile, Frederick Douglass, scrittore abolizionista tra i primi afroamericani a ricoprire incarichi politici,  aveva scritto: “Nei periodi complicati i Negri erano cittadini, nei momenti di pace erano degli alieni”).

Nobili intenzioni quelle di far conoscere un lato oscuro della Storia dei neri americani che rimangono però lettera morta, scontrandosi con l’irriducibile complessità delle altrui storie, disperse in un magma narrativo incoerente e frammentario, una fragile impalcatura sulla quale si vorrebbero tenere assieme istanze troppo eterogenee. A complicare le cose, uno stile imbarazzante per un autore che viene pur sempre dall’underground e dalla sperimentazione, a cavallo tra una favola Disney (che co-produce) e una fiction Rai (che co-produce).  Il tutto condito da un grondante sentimentalismo, e pervaso da un orizzonte comune di religiosità veterotestamentaria e premoderna che dovrebbe suggellare l’alleanza tra italiani e afroamericani nel segno del superstizioso e dell’irrazionale.
 Mentre Lee sa bene comunque  di cosa parla quando racconta dei “suoi” ragazzi, originari di Harlem e mandati su un fronte di guerra, fornendocene ritratti plausibili (seppure appena bidimensionali a nostro avviso), perde di credibilità e scade nella macchietta folkloristica quando passa a tratteggiare i caratteri del gruppo di civili italiani con cui i soldati entrano in contatto.  Questo punto è importante perché un altro degli intenti più o meno dichiarati del film, variante inedita di un chiodo fisso della filmografia di Spike Lee, è spostare in terra italiana, la rappresentazione di quella complessità di rapporti, sempre in bilico tra rispetto e ostilità, che le due comunità, la nera e quella degli immigrati italiani, hanno intrattenuto a partire dalla difficile convivenza nei quartieri popolari delle grandi città degli Stati Uniti. Una storia condivisa, a cominciare dalla forzata coabitazione,  da cui è scaturita una rivalità costante per il controllo del territorio: la Brooklin dei pestaggi e delle ritorsioni in Do The Right Thing, l’Harlem delle relazioni interrazziali violentemente osteggiate in Jungle Fever, il Bronx in Summer of Sam, con i mafiosi italiani del quartiere che si sostituiscono alla polizia in una violenta caccia alle streghe, sono altrettanti teatri di questo perenne incontro-scontro, contraddistinto da una forte componente di pregiudizio e diffidenza reciproci.

In questa epica tutta americana del conflitto interetnico urbano, Spike Lee non è stato certo tenero in passato con i nostri paesani d’oltreoceano dipingendone, spesso a ragion veduta, la boriosa grettezza, la ristrettezza di vedute, lo sciovinismo fascistoide e razzista. D’altro canto ha evidenziato le caratteristiche in positivo che accomunano storicamente i gruppi sociali di neri e italiani: dal forte senso di appartenenza e di solidarietà interna alle rispettive comunità, al valore indissolubile dei legami familiari; dalla rude spavalderia che avvicina il picciotto al giovani gangster e pimp dei ghetti neri, alla rappresentazione di una religiosità viscerale vissuta drammaticamente e senza compromessi.

Non sorprende che Spike Lee si sia accostato al romanzo di McBride per trovare ispirazione al suo film. Una vicenda che gli avrebbe permesso di riscattare la memoria dei militari afroamericani durante il secondo conflitto, dandogli modo al contempo di focalizzarsi sui rapporti che scaturivano dietro i fronti di guerra, tra i soldati neri e gli italiani, fascisti, partigiani, semplici civili.

  Arriva così come una doccia fredda l’infelice dichiarazione del regista “dopo gli attentati i partigiani fuggivano sulle montagne lasciando la popolazione civile esposta alle rappresaglie tedesche” (conf. Stampa, Roma 29/10/08, ripetuta in diverse interviste successive), che rovesciando la realtà e i termini della questione, fa passare come codardi, per di più insensibili alle sofferenze della propria gente, coloro che osarono ribellarsi all’occupazione straniera e al giogo nazi-fascista, combattendo e rischiando la vita per la libertà di tutti.
Quale gioco sta giocando Spike il ribelle, poeta delle relazioni interrazziali, veterano della causa dei diritti delle minoranze? Il regista afroamericano, che ha chiamato la sua casa di produzione 40 Acres & A Mule Filmworks – dalla promessa di risarcimento mai mantenuta fatta dal governo Usa agli ex-schiavi africani – trasformato improvvisamente in un baluardo degli squallidi revisionismi nostrani, un testimonial del livore ideologico di testate come Il Giornale o il Foglio?

In realtà Spike Lee tentava goffamente di spiegarci (!?) che non tutti in quel periodo erano al fianco dei partigiani, che la lotta per la liberazione si inscriveva in un quadro di guerra civile fratricida dove violenze e sopraffazioni erano compiute inevitabilmente da ambo le parti.
Il sottotesto paternalistico sembra essere: voi non siete (o non siete più) in grado di affrontare in modo critico e distaccato il vostro passato, rimuovete o vi accontentate di cullarvi in rassicuranti mitologie positive e verità di comodo, perciò ci penseremo noi a svolgere questo servizio di recupero e riverniciatura della vostra controversa memori
a storica.
Che il regista di Do the Right Thing (perché è così che vogliamo continuare a ricordarlo) pretenda oggi di darci una lezione sulla nostra storia recente è faccenda che avrebbe potuto volentieri indurci al sorriso, se la ricostruzione, per quanto romanzata, di una delle tante stragi naziste di popolazione inerme, non fosse argomento già così maledettamente serio e delicato, e se l’attualità politica italiana, con (post?)-fascisti alle più alte cariche del governo, con azioni di squadrismo razzista consumate quotidianamente sulle nostre strade, con una memoria storica che vacilla sempre più sull’orlo di una voragine d’oblio, non rendesse sia la vicenda narrata che le esternazioni del regista pesantemente inopportune, superficiali e oggettivamente collocate nel solco di una pubblicistica revisionista (la Storia, che è una cosa seria, lasciamola agli storici) quanto mai funzionale a quel “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce o passato…”,  colonna sonora di questa caricaturale Seconda Repubblica.
  Ci sembra tuttavia che, più che delle convinzioni ponderate, sia stato uno stratega del marketing a suggerire a Spike Lee la linea di condotta da adottare in occasione dell’uscita nelle sale italiane del Miracolo: quale modo migliore di promuovere una pellicola mediocre per forma e contenuti garantendosi il successo al botteghino, che dar fuoco alle polveri della polemica, suscitando allo stesso tempo il plauso interessato di nostalgici e nipotini del ventennio, e il sacrosanto sdegno di chi quella Storia l’ha vissuta sulla propria pelle, degli storici seri, degli antifascisti?

Una bella risposta di cuore e di testa alle insinuazioni ambigue di Lee e all’acritica riproposizione di certi luoghi comuni l’ha fornita subito Giorgio Bocca dalle colonne del quotidiano La Repubblica, in un appassionato corsivo dal titolo “Caro Spike Lee, ecco perché io partigiano sparavo e fuggivo: Spike Lee ha un’idea sia pur labile di cosa è la guerra partigiana in ogni tempo e in ogni luogo?” si domanda Bocca, e per chiarire il concetto aggiunge: “Abbiamo dovuto scegliere subito, sul campo, tra attesismo e lotta armata. Chi c’era allora, sul campo, scelse la lotta armata perché l’attesismo era una falsa alternativa, se si stava fermi, zitti e buoni vinceva il nemico nazista, vinceva il terrore” (La Repubblica 1/10/08, pag.1, 33). Rivendicare la giustezza di una stagione di lotta armata, contro le sirene ipocrite e i buonismi pelosi della riconciliazione nazionale, quando non peggio contro i sostenitori dell’equidistanza tra fascismo e antifascismo, tra vittime e aggressori, tra occupanti e oppressi, dovrebbe continuare a rappresentare una responsabilità morale per un intellettuale, invece di apparire merce sempre più rara. Mi sarebbe piaciuto ripubblicarlo integralmente su questa pagina, l’articolo di Giorgio Bocca, sottoscriverlo senza nulla aggiungere. Ma Bocca il film non l’aveva visto, limitandosi a rispondere per le rime, da ex partigiano coerente, alle parole a vanvera di Spike Lee.

Sul piano della controversia politica la visione del film inasprisce se possibile ulteriormente il giudizio sul senso dell’intera operazione di ricostruzione melò di una memoria storica collettiva.
James McBride, l’autore afroamericano del best seller Miracle At St. Anna e sceneggiatore del film, pur dichiarandosi dispiaciuto per aver casomai offeso la sensibilità di qualcuno, rivendica il diritto alla piena libertà creativa dell’artista, sottolineando la natura romanzata di una vicenda che, pur ispirata a fatti realmente accaduti, procede in alcuni suoi snodi determinanti attraverso il ricorso alla pura invenzione narrativa.
Se McBride mette le mani avanti, ricorrendo al trito luogo comune sulla creazione artistica come libera interpretazione del mondo reale (molto ci sarebbe da dire su questa presunta libertà), lo fa perché nel racconto si discosta dalla verità storica e allenta le briglie alla sua galoppante fantasia, in due momenti cruciali. Prima, quando fa dipendere l’arrivo delle SS a Sant’Anna dall’esigenza di dare la caccia a una banda di partigiani responsabili di un’azione contro i tedeschi.  Poi, quando immagina che a fornire informazioni sulle posizioni del gruppo dei ribelli e a mettere sulle loro tracce i tedeschi sia stato proprio un partigiano traditore. Stando ancora alla fervida immaginazione di McBride-Lee, i partigiani sarebbero riusciti a sfuggire all’imboscata, lasciando il campo alla drammatica ritorsione sulla popolazione civile di Sant’Anna, nelle proporzioni di uno a dieci, secondo la dottrina Kesserling-Hitler.
 Non c’è dato sapere quali profonde implicazioni, in termini di accresciuta efficacia espressiva della narrazione o di potenziamento della caratterizzazione dei personaggi, scrittore e regista abbiano potuto ricavare da questa deliberata contraffazione di una vicenda storica. Voglio poter credere che si sia trattato di una malfatta scorciatoia narrativa, piuttosto che di una consapevole tendenziosità.
In un precedente articolo sostenevo che il cinema, a differenza della Storia, può trarre spunti legittimamente a partire da alcuni “se” condizionali. Legittimo, ma solo se i due piani, quello della Storia e quello della sua versione parallela, della fantastoria, non vengano mai confusi intenzionalmente, rischiando di creare così una zona di indeterminatezza, spesso funzionale a sostenere apparati ideologici dominanti.
Se per un artista inventare è legittimo, infelice a nostro parere è stato farlo in questa circostanza: la strage di S. Anna è una ferita ancora aperta che può contare da pochi anni a questa parte anche su una sua riconosciuta verità storica e, caso davvero eccezionale, considerando i fascicoli di omissis sui crimini di guerra commessi da tedeschi e repubblichini, accertata in tre gradi di giudizio da un tribunale militare. Per un approfondimento doveroso sulla vicenda dell’eccidio di Sant’Anna vi rimando ai collegamenti sottostanti. Qui sarà sufficiente ricordare che la sentenza, suffragata da una grande mole di documenti e testimonianze, ha sgomberato il campo dalle illazioni, stabilendo che: nei mesi prima del massacro i partigiani avevano abbandonato la zona intorno a S. Anna di Stazzena senza aver svolto operazioni militari di particolare entità contro i tedeschi; il massacro non è stato una rappresaglia, ma un atto terroristico premeditato e curato nei dettagli per rompere ogni collegamento fra le popolazioni civili e formazioni partigiane; le SS giunsero a Sant’Anna accompagnati da fascisti collaborazionisti italiani che fecero loro da guide.

Ma poi, anche se le cose fossero andate davvero come si immagina nel Miracolo, il giudizio storico sarebbe stato poi così diverso? Che il massacro delle Fosse Ardeatine sia stato compiuto come ritorsione all’azione partigiana di Via Rasella contro le truppe occupanti sposta forse di una virgola la questione delle responsabilità? Con Roma in mano alla Gestapo di Kappler? Con i rastrellamenti indiscriminati e le torture nel carcere di Via Tasso? Con le razzie del ghetto e le deportazioni di 1023 ebrei romani nei campi di sterminio?

Forse, come dice Bocca alla fine
del suo articolo, è vero che “i prudenti, i vili, la maggioranza non perdonano alle minoranze di aver avuto il coraggio o semplicemente il senso di un dovere civico.”  (id.)

Del resto, lo stesso Spike Lee, al termine di Do The Right Thing, lasciava alle parole di Malcolm X il compito di chiarire il suo pensiero: «Io non invoco la violenza, ma allo stesso tempo non sono contro il fatto di usare la violenza per difendere se stessi. Io non la chiamo violenza. Se si tratta di autodifesa la chiamo intelligenza».

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