di Fabrizio Croce /Il pubblico del TGLFF 2016 ha premiato Viva, film sudamericano nello spirito melò e nell’ambientazione cubana, anche se diretto dall’irlandese Paddy Breathnach e curiosamente selezionato, come ci informano nelle note di presentazione, per rappresentare l’Irlanda agli scorsi premi Oscar nella categoria del miglior film in lingua straniera. Quel “curiosamente” si riferisce al fatto che al primo impatto non verrebbe di scegliere in rappresentanza della cinematografica irlandese un film come Viva, in virtù e non in difetto della capacità di calarsi e di raccontare con precisione e verità il contesto sociale e culturale della Cuba contemporanea, seppur come sfondo di un microcosmo ancora più specifico e circoscritto:  il mondo notturno e colorato delle Drag Queen che si esibiscono interpretando nell’aspetto e nella gestualità le grandi canzoni melodrammatiche in lingua spagnola, con la voce rigorosamente in playback e  la sublime arte della sincronicità nel mimare le parole con la bocca e le espressioni facciali.

Un’immagine convenzionale e riconoscibile rispetto alla cinematografia irlandese, in particolare quando il regista in questione è un irlandese di Dublino come  Breathnach, sarebbe piuttosto quella di un interno familiare, magari dilaniato dallo spettro della guerra tra protestanti e cattolici o dal senso di colpa per un desiderio, spesso appartenente a un personaggio femminile, che mette di fronte a una scelta, quasi sempre tra la famiglia di origine e la spinta a costruirsi una propria vita indipendente, in poche parole ciò che si dice una romanzo di formazione. E all’interno del TGLFF 2016 se ne sono visti tanti di romanzi di formazione, come il già commentato California, per lo più appartenenti alla cinematografie dell’Asia e dell’America Latina, una sorta di risposta vitale ed energica ad un cinema europeo o ancor  più mitteleuropeo, vista la massiccia presenza del cinema tedesco, concentrato su dinamiche più sofferenti, asfissianti, mortifere.

Detto ciò  il collegamento con il cinema irlandese è in realtà pertinente in quanto Viva è senza dubbio un romanzo di formazione, con protagonista il giovane, efebico Jesus, che per sopravvivere nei quartieri poveri e degradati de L’Havana, fa il parrucchiere per anziane signore e occasionalmente il marchettaro per turisti facoltosi, ma che vuole con pacata fermezza qualcosa di meglio e di più:  un luogo dove poter esprimere nella forma più completa la sua identità perché,  come ci ha insegnato l’Agrado dell’almodovariano Tutto su mia madre, si è più autentici quanto più si assomiglia all’immagine che desideriamo di noi stessi. E l’immagine del proprio desiderio a cui Jesus vuole corrispondere è quella di Viva, la  “splendida splendente” Drag Queen sotto le cui spoglie si esibisce sul palcoscenico del locale notturno gestito da Mama, un travestito maturo e saggio che di Jesus/Viva diventa tanto il mentore artistico sulla scena quanto sia il corrispettivo, emotivo e accogliente, della madre morta che quello di un padre “alternativo”, una figura maschile di sicurezza e affetto con la quale Jesus sente di non dover reprimere e colpevolizzare Viva, la sua parte femminile.

Viva3

Questa relazione introduce e duplica l’elemento familiare della storia, perché un genitore biologico,  “maschio” per niente alternativo, molto conservatore, manesco e alcolizzato, che non sfigurerebbe in un’ideale kermesse di padri del proletariato irlandese, c’è e, come pretendono le regole del melò, si ripresenta davanti a Jesus, quel figlio  abbandonato all’età di tre anni, ormai sconosciuti l’uno all’altro; un  ritorno  non certo illuminato dall’amore o corroso dal senso di colpa, ma vinto dalla rabbiosa e rancorosa constatazione di aver fallito l’arrogante aspirazione di una carriera da divo locale del pugilato e di essere divorato senza scampo dal solito male incurabile tanto caro alla destinazione finale di qualsiasi melodramma. E tornando alle probabili ragioni che hanno fatto di Viva il film più votato dal pubblico di questa edizione del Festival, quella che appare più solida e convincente è l’indiscutibile piacere del racconto che il regista sa trasmettere, il coinvolgimento caldo come un abbraccio, pur nelle immagini costantemente e così melodrammaticamente attraversate da una minaccia di pioggia e di cielo plumbeo da film tedesco, dell’incontro\scontro tra il padre bifolco che quando vede per la prima volta Jesus travestito da Viva gli molla un pugno in faccia, fino alla faticosa, caparbia, oppositiva e ineluttabile volontà  di entrambi di entrare in contatto  come padre e come figlio, e come due esseri umani, che imparano a conoscersi e a riconoscersi.

Viva2Viva, l’alter ego di Jesus, ha già trovato il suo posto nel mondo, sembra dirci a un certo punto il racconto:  l’ “utero” scenico offertole da Mama  per nascere e rinascere a ogni esibizione e a ogni applauso di un pubblico disilluso e perso nei fumi del rum e del tabacco, alla ricerca dell’ultima illusione della notte. L’attenzione del pubblico in sala, al contrario,  viene  spostata su Jesus che deve ritrovare, in quel padre impossibile e animalesco, il senso della propria storia, interiorizzarla, elaborarla e superarla in una chiave di compassione e amore.

Un “messaggio” fin troppo ottimistico, per non dire consolatorio, che contraddice gli squarci di ferite dolorose e di mortificazioni intuibili dietro al sarcasmo delle Drag Queen più adulte e ciniche, colleghe di scena e compagne di camerino di Jesus/Viva, o la fisicità in declino e il volto rugoso di Mama senza trucco e parrucco,  una sfumatura amara della voce e  una smorfia insoddisfatta della bocca.

Ma senza voler cercare per forza un’intenzionalità rassicurante e ruffiana nell’appianare tutte le contraddizioni e i chiaroscuri nel segno della riconciliazione, lasciando alla fine il pubblico votante commosso, contento e unanime, Viva si impone con grazia e naturalezza dentro il vitale brulicare de L’Havana degli emarginati e dei sopravissuti  e dentro il cinema che sa raccontarne le  abissali umiliazioni e i gloriosi riscatti.

 

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