Le meduse sono animali marini fatti prevalentemente d’acqua. I loro tentacoli vengono usati per lo più per scopi difensivi e il contatto con un altro essere vivente a volte può essere letale. In loro convive l’ossimoro fragilità/forza.

Simili a loro, i protagonisti del racconto poetico e malinconico Meduse, camera d’Or all’ultimo festival di Cannes e opera prima di Etgar Keret e Shira Geffen, due scrittori israeliani agli esordi cinematografici, nuotano nel mare della vita, si sposano, si separano, si incontrano e muoiono, insicuri e deboli individui, capaci di salvare e nello stesso tempo di trafiggere, di infierire. Il signore che ne guida le azioni o le mancate azioni è il dio della necessità, iscritto nelle ferite che il destino ha loro inferto, che li ha segnati marchiandoli a vita. E’ il dolore che provano che toglie qualsiasi responsabilità al male che provocano, a se stessi e agli altri, esseri smarriti in corsa verso un destino che sembra inesorabile. E’ per questo che Batya non riesce a dire al suo compagno “resta” mentre lui sta per andarsene; che sua madre, abbandonata dal marito per stare con donne più giovani,  la ignora persino quando la va a trovare in ospedale in seguito ad un incidente; che la vecchia signora sgarbata e razzista di cui si occupa Joy, “ la filippina” come la chiamano tutti, rifiuta il rapporto con una figlia distante e disattenta ma bisognosa di lei mentre riesce a stabilire con la sua badante un legame di vicinanza e di affetto. Otto sono i personaggi di cui Keret e Geffen raccontano le storie e tutte loro hanno in comune l’amore, o meglio la mancanza dell’amore e i suoi effetti. Le vite dei protagonisti sono messe in scena senza che mai sia loro negato il sapore della realtà, tragico o comico che sia: a tratti il racconto si apre a macchie di colore leggere e amene, poetiche e commoventi.

In questo navigare di anime sperdute, un unico elemento sembra irrompere nel mondo del dio necessario: quello dell’amore che salva, della vicinanza tra gli esseri come unica possibilità di sopravvivenza. “Un veliero dentro una bottiglia non si bagna. Le sue vele rimangono sempre tese perché  non soffia il vento” scrive Keren, giovane sposa che si è rotta una gamba durante il ricevimento del suo matrimonio, costretta a ripiegare la sua luna di miele in un albergo di Tel Aviv. Ma un veliero in una bottiglia è come un uomo chiuso in un guscio, non soffre ma neanche gode. E’ l’incontro inatteso dell’amore in tutte le sue sfumature, straordinaria concessione a uomini e donne di un dio cinico e indifferente, capace anche lui per un momento di provare amore, che rompe quel guscio che ci imprigiona e salva.  Così è per i due sposi che si ritrovano dopo alcune incomprensioni, e per Joy e la vecchia signora. Diverso è per Bayta che per “salvarsi”, per potersi avvicinare qualcuno, deve prima fare spazio, deve affrancarsi dal suo passato di bambina ferita, deve lasciare inabissare nel mare del suo inconscio la piccola bimba dagli occhi blu incontrata per caso sulla spiaggia, dopo averla accompagnata.

Straordinaria lezione di umanità quella offerta da Meduse, e di speranza: laddove il destino sembra inesorabile e inevitabile può aprirsi sempre uno spiraglio e materializzarsi il gelataio della nostra infanzia che questa volta ci offre un gelato ma a mangiarlo non siamo più soli.

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2 commenti su “Meduse

  1. Grande Iaia!
    Grazie per avermi parlato del film e per averne scritto così bene. E per tutto il resto.

  2. l’ho rivisto ieri sera e l’ho trovato ancora più bello. Ci sono questi rapporti irrisolti tra madri e figlie così significativi.. anche quando la cosa riguarda soltanto l’incapacità di sedurre in modo adulto, dicendo in modo chiaro quello che si desidera invece di comportarsi come una bambina capricciosa (penso alla storia della giovane sposa e della scrittrice suicida), quasi che la madre non le abbia insegnato il modo e che solo attraverso l’incontro con una donna adulta e consapevole, e che lo è così tanto al punto da annullarsi lucidamente, riesce a stare vicina al suo uomo tenendo le spalle e lo sguardo dritti.

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