Filmare l’infilmabile. È questo il paradosso del passaggio da videogioco a film. Una materia che può essere infilmabile perché troppo lontana; oppure perché troppo vicina, come nel caso di Max Payne. Il paradosso, per la verità, lo vediamo forzato nella pratica molto spesso; solidi motivi economici fanno pensare che le cose non cambieranno. Vediamo allora come è andata nel caso di Max, l’eroe eponimo in cerca di vendetta nei confronti di chi gli ha trucidato la famiglia.

Creato dalla Remedy nel 2001, il gioco è una storia lineare con prospettiva in terza persona, incentrato sulle sparatorie grazie alla trovata fondante del bullet time. Erano gli anni di Matrix, e lo scorrere del tempo veniva rallentato permettendo combattimenti coreografici, che però – fortunatamente – rimandavano al John Woo dei tempi belli più che ai fratelli Wachowski.

La forma videoludica è ancora all’alba della sua storia, e sta sperimentando con le sue potenzialità. Tuttora la maggior parte dei game designer non riescono, non vogliono o non hanno il coraggio di rinunciare a una sintassi espressiva che è copia carbone di quella cinematografica. Max Payne aveva trovato una soluzione al problema. Empirica, ingenua (o forse no?), ma l’aveva trovata: lavorava per accumulazione, prendeva la copia carbone e la moltiplicava; superava il livello della citazione, poi quello della ripetizione stucchevole. Arrivava infine a un loop rimasticato talmente derivativo da avere un sapore personale. Il gioco riusciva così ad attirare sia chi cercava la familiarità e la consuetudine, sia chi ne apprezzava l’alto profilo della riflessione metalinguistica.

Nella pratica, ciò voleva dire un’immersione nel noir classico americano, una continua voce fuori campo a gestire la narrazione, un linguaggio orgoglioso del suo sovraccarico di metafore. Il motivo per cui Max Payne è rimasto nell’immaginario collettivo è anche e soprattutto la sua capacità di triangolare senza sosta cinema e tv, letteratura e fumetti, giornalismo e videogiochi, rendendoli testo e non solo contesto. La parola scritta, anche nell’adattamento più inutile, sconta sempre una perversa attrazione verso il completamento in forma di immagini; in un certo senso l’uno è il risvolto dell’altra. C’è una tensione che procede cronologicamente da un mezzo d’espressione al successivo.

Tra il videogioco e il cinema il rapporto è profondamente diverso, di sicuro ribaltato: è il primo a essere ancora forma debole nei confronti del secondo, e in quanto tale inadatto alla funzione di testo d’origine. Allo stato attuale, un film tratto da un videogioco somiglia a un romanzo tratto da un film. È inerte, sterile, privo di un spinta vera. Nonostante ciò, il film deve essere gustato e valutato in quanto tale. Da dove viene, poco importa. Max Payne è un brutto film, con una sceneggiatura blanda e male equilibrata nelle parti. Ma è un brutto film prima di essere un brutto adattamento. Chi non ha mai sentito parlare del gioco si troverà di fronte un anonima detective story che si tramuta di colpo in lotta demoniaca.

Mark Wahlberg, che nel periodo post-Scorsese non brilla al botteghino (in compenso prospera come produttore televisivo), presta un volto di circostanza al suo investigatore, cerca di innervarlo con il prestigio di un divo dell’action, ma la storia ha il fiato corto. La responsabilità, oltre che della citata sceneggiatura dell’esordiente Thorne, è del regista John Moore, ancora fermo allo stile di Behind Enemy Lines. C’è ancora spazio per un cinema d’azione statunitense che non sia fatto di saghe spionistiche o supereroi? Moore sembra provare nuove strade, ma poi si perde, indeciso se seguire le linee di Sin City, o Underworld, o Constantine.

L’opera di partenza della Remedy aveva tre spiccate specificità testuali: una forte benché ripetitiva idea di gameplay (il bullet time), un’astuta narrazione metariflessiva e una trama che appassionava come risultato dei primi due elementi. Gli stessi due elementi che non possono essere portati sul grande schermo, lasciando vulnerabile il terzo, ridotto a uno scheletro che per giunta dal cinema era già derivato. Ecco dunque il paradosso di Max Payne, una creatura che fagocita il suo stesso cadavere. Un corto circuito da manuale, che rimette sul piatto l’interrogativo di questi adattamenti. Sotto a chi tocca: c’è un problema teorico di non facile soluzione.

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