[****] – Louise e Michel (un bel foro rotondo di proiettile a separare i nomi sulla locandina) sono i due sicari improvvisati, giustizieri di classe dal controverso status sessuale, partoriti dalla ferocia caustica e libertaria dei registi Delépine/Kervern. Una risata vi seppellirà, era la speranza politica degli anni (ri)belli, volta contro la tristezza del potere, e in Louise e Michel si ride certo a crepapelle, anche se poi sotto le macerie ci finiamo tutti.   
I due protagonisti del film, un lui/lei, Michel, occhio privato maldestro ex lanciatrice del peso, e una lei/lui, Louise, operaia ed ex detenuto, passano all’azione per vendicare l’inaspettato licenziamento, dalla sera alla mattina, delle colleghe di Louise, impiegate in un’azienda manifatturiera nella depressa regione della Piccardia. Il colpevole da sopprimere? Ovviamente il “padrone”, parola tabù nell’anestetizzata Italia berlusconiana, quantunque ancora molto in voga oltralpe; ed è un padrone al quale si é sempre meno disposti a farla passar liscia, si vedano quei casi recenti di boss-napping in Francia e Belgio, incruenti sequestri lampo di dirigenti, messi alle corde dai loro stessi operai che non ne possono più di sentire parlare di sacrifici a senso unico. Stigmatizzate come dimostrazioni di populismo da un sistema mediatico connivente fin qui col peggior capitalismo finanziario, e ora balbettante di fronte al collasso dell’economia liberista, queste forme di protesta si inscrivono in realtà nel clima più creativo e situazionista della lotta politica già dagli anni ’70 (il Godard di Crepa, padrone va tutto bene, per intenderci).

 Eppure se nell’ancien régime, al popolo esasperato era sufficiente recarsi in massa al castello e impiccare il signore vessatore, individuare nelle moderne plutocrazie finanziarie il primo anello nella catena delle responsabilità é impresa assai più ardua. Louise, che ha ancora contatti nella malavita, ha buon gioco nel convincere le colleghe a riunire le liquidazioni di tutte e ingaggiare un killer per sbarazzarsi del padrone. Ma chi è, in effetti, il vero responsabile dell’azienda? Scoprirlo sembra decisamente fuori dalla portata dell’operaia Louise, la Yolande Moreau già memorabile portiera di Amélie, con il suo inconfondibile accento della banlieu, almeno per chi il film avrà la fortuna di vederlo in lingua originale. Il suo è un personaggio di una radicalità sottoproletaria che il cinema raramente ha avuto il coraggio di elevare a protagonista assoluta della scena. Completamente incosciente dei processi che governano la società, la donna, quasi analfabeta, solo per caso non rimane sepolta sotto le macerie della sua abitazione in demolizione, non essendo in grado di leggere le notifiche di evacuazione appese ovunque nel quartiere. Ma il baratro che separa la sua quotidianità iper-materiale di sfruttamento, dalla dimensione astratta e asettica dell’alta finanza, non è un ostacolo sufficiente, nel meraviglioso mondo capovolto di Delépine e Kervern, per recedere dall’impresa.
Assieme a Michel, investigatore sgangherato e maldestro, inizia così una surreale caccia all’uomo, risalendo le complesse ramificazioni delle società controllate, per arrivare, al termine del viaggio, all'incontro ravvicintato col top-manager miliardario di turno, cittadino onorario di qualche oscuro paradiso fiscale. Sullo sfondo, l’ormai consueto repertorio da Houdini della finanza virtuale: de-localizzazioni dove la manodopera costa meno, scatole cinesi con annidamenti di società, volatilità degli investimenti, misteriose holding con caselle postali come sede legale. E soprattutto la freddezza assassina e impersonale della finanza, che con una semplice combinazione d’istruzioni binarie impartite per telefono, “compra!” “vendi!”, può determinare il destino di migliaia d’individui dall’altra parte del mondo. E’ la teoria del caos di Lorenz: la vecchia storia del battito d’ala della farfalla in Brasile che può provocare un tornado in Texas. Solo che qui i responsabili non volano di fiore in fiore ma, altrettanto leggiadri nonostante i pancioni prominenti, da una stock option a un fondo d’investimento.

 Di là dalla vicenda in questione, tutta dentro l’odierno tempo della crisi dell’economia reale, il titolo del film, evoca un nome importante nel pantheon dell’anarchismo mondiale: Louise Michel, insegnante vissuta in Francia nel XIX secolo. L’anarchica storica Louise, cui il film è dedicato, ha precorso una concezione pedagogica modernamente laica, si è battuta per la piena parità d’istruzione e di salario tra uomo e donna, pagando col carcere e con la deportazione la sua militanza politica, culminata nell’adesione alla Comune di Parigi.
Amava anche giocare con la sua ambiguità sessuale e vestirsi da uomo, Louise, sorta di metrosexual al femminile ante litteram, da qui forse una delle possibili fonti d’ispirazione per la basculante collocazione “di genere” dei due vendicatori proletari del film.
Se la genia libertaria e neo-luddista di Louise e Michel è dichiarata, altrettanto programmatico ne è lo stile della scrittura visiva, curata da Benoit Delépine e Gustave Kervern, in cui la lezione della commedia noir sociale a basso budget, della premiata bottega Aki Kaurismaki, appare evidente.
Già il loro lungometraggio di esordio, Aaltra, commedia on-the-road, cinica e scorrettissima, con protagonisti i registi stessi nei panni di due abietti disabili, era tutto un omaggio all’amico e compagno di sbronze finlandese, che vi recita un memorabile cameo finale.
 Del cattivo maestro, iconoclasta fustigatore di artifici spettacolari, i due autori francesi condividono, il gusto per una pratica artistica povera e artigiana, in cui l’imperfezione sia dichiarazione etica, prima ancora che tecnica narrativa e il motore espressivo giri sempre nel senso della sottrazione. Movimenti di macchina ridotti all’osso, ambientazioni squallide  fotografate a sgranature e senza mezzi toni, un ritmo di montaggio che metta in risalto le soste e i silenzi piuttosto che l’azione, dialoghi scarni e sceneggiature non interamente scritte, per lasciare spazio all’indole originale degli attori, professionisti e non.
Anche la materia umana è quella cara a Kaurismaki: perdenti, paria sociali dall’irriducibile dignità che, nel tentativo disperato di riscattarsi, finiscono con lo sprofondare sempre più nella melma della miseria. Non si sconfina mai, tuttavia, nel cupo autocompiacimento, nell’elegia sottoproletaria che pervade il cinema di un’altra celebre coppia di francofoni, i Dardenne.
L’arma vincente nelle mani di Delépine e Kervern è un’ironia corrosiva e insolente, che non risparmia niente e nessuno, a partire proprio dagli sgradevoli, amati, protagonisti. L’operazione di decostruzione dei generi del cinema americano in chiave straniante e antispettacolare, concorre all’effetto grottesco e pazzo dell'insieme: il road-movie e il gangsteristico, visti come in un prisma deformante, forniscono l’orizzonte mitico, una frontiera lontana che div
enta la sola speranza per un’umanità eternamente ai margini, senza diritto di cittadinanza in alcun ordine sociale.  
Scelta o necessità, le mini-produzioni come Aaltra e il successivo Avida, hanno garantito finora a Benoit Delépine e Gustave Kervern, il totale controllo di produzione e piena libertà espressiva.
 Per Louise e Michel il discorso è in parte diverso, trattandosi di un film a budget relativamente più elevato, prodotto da Mathieu Kassowitz, e con una sceneggiatura per la prima volta scritta per intero, data la presenza di attori professionisti. Il risultato, forse proprio per questo, sa a tratti di compromesso. L’energia esplosiva e dissacrante di Aaltra qui è come incapsulata e resa parzialmente inoffensiva dai più alti standard di preparazione richiesti dalla produzione. Ed è soprattutto nella prima parte che il film rivela i suoi pochi punti deboli, oscillando per un po’ tra commedia convenzionale e favola underground, per prendere il ritmo giusto solo quando si fa compiutamente road-movie, un registro sicuramente più congeniale alla pratica cinematografica dei due registi. Come pure la carica trascinante dei personaggi, che può sconfinare in territorio aperto, lasciandosi alle spalle ogni angusto limite di verosimiglianza che l’unità di luogo alla lunga reclama. L’epica del viaggio offre ancora una volta lo scenario ideale allo sradicamento dei personaggi, al loro stato di estraneità alle regole del gioco sociale. Un cinema nomade che fa dell’incompiutezza la sua risorsa, quasi una declinazione estrema dello spirito più autentico e vitale della nouvelle vague. Gira la voce che al prossimo progetto di Benoit Delépine e Gustave Kervern abbiano chiesto di poter prender parte Depardieu e l'Adjani. Con tutto il rispetto per questi pesi massimi, speriamo in cuor nostro che i due registi arrivino tardi all’appuntamento col “cinema dei padri” e si perdano ancora una volta, da qualche parte, “sulla strada”.  

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