Ritrarre il presente è l’utopia di Antonio López García: si prepara meticolosamente, scientificamente, e sul principio dell’autunno del 1990 comincia a dipingere il melo cotogno del giardino della sua casa di Madrid, nel periodo di piena maturazione, deciso a catturare nel quadro i raggi del sole, a cogliere dell’albero l’immagine pura. Fallirà.

L’assillo di Víctor Erice è filmare la durata: riprende integralmente la vita e il lavoro del pittore nel corso dei quattro mesi della sua impresa, quasi si “dimenticasse la cinepresa accesa” durante le lunghe ore di preparazione e lavorazione, durante le conversazioni di López con la moglie e l’amico Pato, anch’essi pittori, e l’apparente insignificanza dei tempi morti e anticinematografici.

Nella pellicola di Erice, cineasta spagnolo classe ’40 originale e irregolare (tre soli lungometraggi in quasi cinquanta anni), omaggiato pochi giorni fa di una retrospettiva al Vento del cinema di Procida, realtà e finzione si confondono (El sol del membrillo è documentario o fiction?), anzi di più: si svuotano progressivamente di senso proprio di fronte all’unico evento che assuma valore: il farsi del film. La m.d.p. in effetti non è mai negata, fino all’esplicito disvelamento finale che tanto fa pensare al cinema di Kiarostami: il giardino è un set. Eppure nessuno scossone è dato all’occhio dello spettatore; piuttosto la chance di uno sguardo ulteriore che mostra ciò che al primo è solitamente precluso, un’occhiata fugace ed epifanica “come a un sogno perduto: quello della nostra vita precedente”.

Scivolando lentamente verso lo schermo, lasciando che la natura e le chiacchiere dei protagonisti ci avvolgano, abbiamo accesso a una dimensione altra, calda e umana, un tempo dilatato assolutamente irragionevole dentro un’idea di cinema classico e invece indispensabile per l’opera di Erice. La poesia nella durata.

Per queste ragioni attorno a El sol del membrillo (premio della giuria a Cannes nel 1992, in Italia mai distribuito in sala) e al lavoro tutto di Erice, Enrico Ghezzi ha costruito l’edizione 2009 de Il vento del cinema, il cui filo conduttore – pienamente ghezziano! – era l’“incompiuto cinema”. Come per Rivette (cfr. La belle noiseuse), anche per Erice la verità del dipingere sta tutta fuori del quadro (pittoricamente e filmicamente!), nella complessa interazione che si realizza tra l’artista, il soggetto e il “mondo” che preme ai margini. Ma per arrivare a coglierne una minima intuizione, sembra dirci il regista, sono necessarie pazienza e una precisa disposizione alla dissipazione. Il tempo dell’arte non si identifica né può sovrapporsi con quello della vita: è proprio quando le mele maturano e cadono dall’albero che il quadro di López conosce il suo destino di non-finitezza.

Rimane la memoria, quella della comune gioventù rievocata dai due pittori e quella ultima di un fallimento meraviglioso. Permane solo il mare – per dirla con Erice stesso in La morte rouge – non le orme lasciate sulla riva.

Victor Erice, Poesia en el campus 36, Università di Saragozza, 1996.

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