Perchè sì

Perchè no

 di Raffaele Giannitelli

I fischi e le stroncature veneziane non hanno certo fatto del bene a questo film, infatti domenica sera allo spettacolo delle 20,30 in un solitamente affollato cinema romano dei Prati ci siamo ritrovati veramente in pochi a seguire l'”irresistibile” ascesa del giovane finanziere Filippo Costa nel bel mondo dell’imprenditoria capitolina.

Peccato, perché la visione dei novanta minuti diretti da Marra sono risultati assai piacevoli e ricchi di sollecitazioni e stimoli non così banali nè, tantomeno, degni di una fiction televisiva di basso rango, come li hanno definiti i più.

La storia è assai semplice e scarna e le occasioni colte dal giovane e ambizioso finanziere ci appaiono quasi di routine in un mondo in cui è scontato che personaggi televisivi e/o reali non si facciano mai sfuggire la possibilità di arricchirsi e di scalare posizioni nella gerarchia sociale, non appena l’impresa appare possibile. Pertanto la carriera di Filippo è esemplare, non c’è alcuna intuizione geniale dietro il suo “salto di qualità”, solo la capacità di cogliere un’occasione. Nella fattispecie questa occasione è Fanny Ardant, che può introdurlo nel mondo delle amicizie politiche e finanziarie che, coniugate con i suoi appoggi interni alla Guardia di Finanza, costituiscono la formula ideale per una facile ricchezza. E qui, è vero, comincia la fiction: Filippo, man mano che accede ai piani alti della società, muta pelle e cambia il panorama di tutto ciò che lo avvolge: le case che frequenta, i ristoranti dove cena, le macchine che guida, i vestiti che indossa. Tutto ciò che lo attornia diventa specchio dei desideri collettivi identici a quelli che divorano produzioni televisive, in cui si ritrovano oggetti e spazi desiderati e per i quali chi può, forse non sempre, vende l’anima. E sì, perché poi un prezzo da pagare per tutto questo c’è: Filippo è costretto, infatti, a rinunciare a Francesca,  la bella e giovane ragazza che frequenta, nel timore di perdere la signora che gli garantisce l’ascesa sociale. A sua volta la Ardant scopre ben presto i motivi per cui Filippo resta con lei, ma li scaccia via, assieme alle lacrime, con un efficace tampone da cipria. Tutto questo pur di restare al centro della scena nella loro patinata storia un po’ televisiva, con regole semplici e inesorabili, anche per quanto attiene l’arredo del set. A tal proposito è anche interessante il contrasto tra gli ambienti e i luoghi da cui parte il nostro eroe e in cui infatti si ritrova per l’ultima volta con Francesca (un muro di cemento contro i binari della ferrovia – alla Marra di Vento di Terra) e quelli in cui “atterra” dopo la sua ascesa (appunto da set di fiction).

Forse questa pellicola non sarà ricordata tra le migliori nella filmografia di Marra, ma alcune qualità le possiede certamente e certo rappresenta una scelta coraggiosa quella di abbandonare l’aura un po’ “etnica” e di genere dei suoi primi film per affrontare di petto luoghi e persone che popolano il nostro immaginario costantemente e che molto spesso sforano nel reale attraverso media e/o esperienze dirette poco piacevoli.

 di Edoardo Zaccagnini

Il problema non è la vicinanza con la fiction televisiva. Tra questo film e l’inno ai carabinieri, alla polizia, ai vigili del fuoco e a quelli della città, c’è tanta distanza. In tutte le mostruosità che non hanno sostituito il cinema di genere, ma lo hanno ignominiosamente insultato, le divise passano da eroi dal volto umano, da esempi di rettitudine morale, potenza fisica e mentale. Qui, per fortuna no. E per ciò il linguaggio di Marra, seppur timido e balbuziente, non può minimamente essere paragonato a quelle pitture di sistema mascherate da pastrocchi infantili.

Quale problematicità c’è nella fiction italiana, e quale pudore, oggi? E quale rispetto per ogni barlume di verità che non sia quella comoda e strumentale di chi ha il potere? Nessuno, o quasi. Specialmente quando si parla di storia recente. Tante immagini schiacciate, abusate, sbagliate, devianti, arrivano senza sosta dalla nostra televisione. Talmente tante che siamo in guerra contro il nostro paese. Storditi, drogati. Siamo bombardati dalla sua principale sorgente di comunicazione. E non fa testo il tono falsamente innocuo con cui si parla degli artisti (Rino Gaetano, la Callas), degli sportivi (Coppi, Bartali o il grande Torino) o degli eroi veri (Falcone o Borsellino). In quei casi c’è pochezza, mancanza, inutilità, didascalia, ipocrisia, insensatezza. E a voler essere cattivi, ma onesti, anche la fiction più pulita serve al potere per mantenere la presa sul cittadino. Ma stanchi come siamo, e vicini alla rassegnazione, non abbiamo più la voglia di arrabbiarci. Siamo più esposti, invece, di fronte agli impiegati, ai santi e ai brigadieri. E là dobbiamo convogliare le quattro energie che ci rimangono. Perché non sono casi umani, quelli, figure o semplici storie. Ma paradigmi, modelli imposti per direzionare la massa verso il bene acritico, conquistato a priori e insindacabile: la strategia della calma, che fa dei santi e dei sopportatori tenaci gli esempi da seguire.

Nel film di Marra, per fortuna, tutto questo non c’è. E nell’applaudito film di Porporati, un’altra delusione, c’è più fiction che in quello di Marra. Dentro L’ora di punta c’è piuttosto la voglia inespressa di fare un film sul presente e contro questo presente. E proprio tra l’intenzione e il risultato sta la rovinosa, preoccupante caduta di un regista promettente, che fino ad oggi proprio dell’affondo testardo aveva fatto la sua forza. Fino ad ora, escludendo i tre documentari e rimanendo nel campo delle sue due simili pellicole, Tornando a casa e Vento di terra, avevamo notato una devastante, profonda vastità del mostrare. Le porte del suo cinema si aprivano una dopo l’altra sulla sofferenza e il disagio, sfidando la pornografia e la pazienza dello spettatore. Marra diceva più di quanto ci aspettassimo, di quanto dovuto e necessario, rinunciando a tutte le allusioni, al fuoricampo e a certi poteri specifici del cinema. Arrivava sempre il momento in cui si sentiva esageratamente tragico il destino dei protagonisti. “Marra fermati”, veniva da gridare. Però, da buoni spettatori di cinema vicino alla realtà, digerivamo con volenterosi deglutimenti quelle che per noi erano leggere forzature, e consideravamo le sue porte spalancate con decisione, raggi di scomoda e necessaria luce sulle cose inaccettabili della nostra Terra. E, soprattutto, al di là di alcune scelte di scrittura e di regia, il suo messaggio ci appariva forte, chiaro, inequivocabile. Il suo viaggio nel cinema ben indirizzato e interessante.

Finchè poi, improvvisamente, alla sua prima volta nel concorso venziano, (una Venezia che ben conosce il nostro autore e a cui riserva sempre tanti onori) a Marra tremano le gambe e si mette a dire meno del necessario. A fermarsi sulla porta del problema e a concentrarsi sulla psicologia egoista e maledettamente e perversamente ambiziosa di un tizio come tanti. Troppi gli spazi concessi a due donne, quelle sì, troppo vicine alla televisione. Donne poco interessanti da un punto di vista narrativo, nella loro lessa antitesi sovrapponibile. Del resto, conoscendo gli autori, scopri meglio gli uomini che ci sono dietro: Marra non ha mai riservato grosse attenzioni alle donne. Sono femmine da Sud, anche se hanno l’accento francese e un sacco di soldi e conoscenze. E passi! Anche se il cinema dovrebbe amare le donne, omaggiarle ogni qualvolta esse attraversano l’inquadratura. Al Marra de L’ora di punta reclamiamo prima di tutto l’incapacità di trasformare il desiderio in cinema. Il mondo in cui viviamo e di cui facciamo parte fa schifo, ed è una trappola in cui è facilissimo cadere. Perfetto, giusto, sano. Ma per trasformare questa cultura marcia e dannosa, anche solo per un’ora, in un dolore sordo da comunicare al vicino di poltrona, ci sarebbero voluti più coraggio, più chiarezza e più talento. Ci dispiacerebbe non veder volare una promessa e considerare il regista napoletano vincolato alle croci secolari della sua terra meridionale. Per un cinema di genere che, anche se per negazione, va a ripescare le solide basi del superato neorealismo italiano. Ci va di sperare che il suo prossimo film non si fermi a un paio di valide inquadrature che si affacciano su due ambienti sociali che contrastano, o a una denuncia solo sussurrata. Il film si concentra sull’individualità del protagonista e non vorremmo che si trattasse di un transfert psicanalitico. Vorremmo un linguaggio capace di raccontare di più di quanto questo film riesce a fare.

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