Un uomo solo al volante. Un personaggio solo in scena. La telefonata che sconvolge la vita di Ivan Locke arriva proprio mentre questi si trova in auto, al termine di una giornata di lavoro. A casa lo attendono l’amorevole moglie, che gli ha preparato la sua cena preferita, e i due figli, con cui guardare la partita della squadra del cuore, ma un brusco cambio di programma farà precipitare la serata, e non solo quella.

Ha commesso un solo errore nella vita, Locke, lavoratore esemplare, padre perfetto e marito fedele. Tranne una volta. La donna (che conosce a malapena) con cui si è concesso una sola scappatella sta infatti per dare alla luce – con anticipo e con difficoltà – suo figlio, e la cosa giusta da fare per Locke è raggiungerla. Si metterà quindi in viaggio da Birmingham verso Londra e sarà costretto a prendere decisioni importanti (sul lavoro, sulla famiglia) durante il tragitto.

Il film è tutto qui, basato su un solo attore – l’ottimo Tom Hardy – che tiene la scena per quasi novanta minuti, chiuso all’interno di un abitacolo, con camera pressoché fissa (al netto di qualche inquadratura del traffico autostradale) e con l’unico espediente narrativo delle telefonate, attraverso le quali lo spettatore ricostruisce pazientemente la situazione di partenza. Un film di scrittura densa e robusta, con una sceneggiatura e dei dialoghi talmente precisi e puntuali da riuscire a connotare perfettamente tutti i personaggi “di contorno”, presenti solo in voce: il collega a cui Locke dice e non dice, e a cui affida la responsabilità del lavoro dell’indomani (una colata di cemento, Locke è un capo-cantiere); la moglie disperata e incredula; i figli, cui sfugge la gravità della situazione; la donna incinta, spaventata e irrazionale.

La sfida di Steven Knight – già sceneggiatore per Cronenberg, alla seconda prova come regista – è quella di procedere per sottrazione, eliminando personaggi e ambientazioni fino ad arrivare a un cinema estremamente rarefatto. Sembra in un certo senso voler proseguire, portando a un livello più alto e definitivamente insuperabile, le sperimentazioni dell’ultimo Polanski, che metteva in scena prima quattro personaggi in un salotto (Carnage), poi due su un palcoscenico (Venere in pelliccia).

Stavolta c’è un solo personaggio ed è all’interno di un abitacolo, inquadrato forzatamente a mezzobusto, e anche se vengono in mente analogie con altri film, anche recenti (Cosmopolis dello stesso Cronenberg, il visionario Holy Motors di Carax), la differenza sta proprio nella mancanza di interazione fisica con altri personaggi. Laddove Robert Pattinson e Denis Lavant venivano scarrozzati qua e là per compiere delle “missioni”, il percorso di Hardy/Locke è più lineare, in tutti i sensi. La sua auto procede senza fermarsi mai, e il protagonista agisce, telefonata dopo telefonata, seguendo una sua logica e una sua morale, anche a costo di perdere tutto. Da questo punto di vista, l’unico aspetto forse un po’ stucchevole della storia sta in alcuni dialoghi immaginari tra Locke e il fantasma di suo padre, che lo abbandonò da piccolo e fu un pessimo esempio, che servono comunque a far comprendere – seppure in modo un po’ didascalico – il senso di alcune scelte del protagonista.

A un certo punto del film Locke sa di aver perso tutto. La fiducia e l’amore della moglie, che non vuole più rivederlo; il lavoro, mollato nel momento più importante senza dare spiegazioni; la credibilità davanti ai figli. È il momento in cui si scopre davvero solo. Il bambino che sta per avere da una donna che non ama e che conosce a malapena è la causa scatenante di tutto, ed è l’unica cosa da salvare nell’immediato. La resa dei conti, il momento di scendere da quell’auto e provare a ricostruire tutto, arriveranno presto. Ma intanto bisogna continuare a correre incontro al destino.

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