Ho incontrato Alessandro Comodin il giorno dopo la cerimonia di premiazione del festival, letteralmente all’ultimo minuto prima della sua partenza. Il regista ha accettato, con molta simpatia e generosità, di rispondere alle mie domande mentre tutti i suoi lo stavano pazientemente aspettando per lasciare Locarno. La nostra conversazione si è svolta – non sarebbe potuto essere altrimenti – di fronte al lago in una splendida mattinata d’estate.

Com’è nata l’idea di L’estate di Giacomo, qual’è l’origine di questo progetto?

In realtà non ero partito con l’idea di fare un lungometraggio: il mio progetto iniziale era quello di seguire Giacomo durante il processo di un’operazione che si chiama impianto cocleare. Giacomo é sordo dalla nascita e a diciott’anni ha deciso di fare quest’intervento chirurgico che consiste nell’inserire un elettrodo nell’orecchio interno, si tratta di una cosa molto complicata quando viene fatta in età adulta. Volevo fare un film sul passaggio dal silenzio al suono che avrebbe mostrato al contempo anche il passaggio dall’adolescenza all’età adulta attraverso, appunto, la scoperta del suono.

Qual’era la situazione di Giacomo prima dell’operazione?

Giacomo ha sempre parlato, ma sentiva poco e man mano che il tempo passava la sua situazione degenerava. Da un paio d’anni a questa parte esisteva la possibilità di ricorrere all’impianto, però dopo avergli fatto passare, qualche tempo fa, un test psicologico gli specialisti avevano stabilito che lui non era ancora pronto. D’altra parte la tecnologia non era ancora abbastanza a punto, così Giacomo ha deciso di aspettare fino ai suoi 18 anni per sottoporsi all’intervento.

Come hai conosciuto Giacomo?

Conosco Giacomo già da sempre si può dire, perché é il fratello minore del mio migliore amico, un compagno di liceo con cui ho passato tutta la mia adolescenza. Giacomo poi giocava spesso anche con mia sorella Stefania, che é la ragazza che si vede nel film. Più tardi io sono partito per la Francia e l’ho perso un po’ di vista.

Quale è stata in seguito l’evoluzione del film?

In primo luogo ho filmato Giacomo l’estate prima che si facesse operare, cioè nel 2009. Dopo ho filmato l’operazione e la logopedia completamente da solo in digitale. L’estate successiva sono ritornato sui luoghi con la mia troupe ed abbiamo girato in pellicola. La mia intenzione era quella di filmare come se fosse ancora l’estate precedente; in realtà dopo che Giacomo si é fatto operare io non me la sono più sentita di chiedergli di fare finta di non sentire. Volevo mescolare questi due piani, mettere in relazione il documentario più frontale con questa specie di finzione fra virgolette sull’estate precedente ad un’ipotetica operazione e descrivere, attraverso questo processo, il passaggio di Giacomo all’età adulta e al linguaggio.

Alla fine hai deciso di presentare questo progetto iniziale sotto una forma completamente diversa, perché?

A dire il vero penso che L’estate di Giacomo, così com’è, sia molto più vicina all’idea primitiva che avevo in mente di quanto non lo sarebbe stata se avessi utilizzato tutto il materiale filmato perché parla di una trasformazione senza dirlo esplicitamente. Questo passaggio si sente, lo si prova, però non é mai trattato frontalmente. Il film è molto evocativo e questo é un elemento che mi piace molto.

Guardando L’estate di Giacomo ho avuto l’impressione di trovarmi davanti ad un film di finzione piuttosto che ad un documentario. Come hai proceduto?

Il film é stato montato in modo tale da dare quest’impressione, a monte avevo chiesto a Giacomo di non guardare nella telecamera e avevo deciso di non fare interviste. Ma la vera e propria messa in scena del film ha consistito nel mettere Giacomo in posti in cui non é abituato ad andare. Giacomo è molto paranoico su tante piccole cose come, per esempio, la pulizia e l’igiene; grazie alla complicità di mia sorella lo abbiamo portato fuori casa, in luoghi che non conosceva e che hanno provocato delle reazioni molto interessanti da parte sua.

Il ritratto che ci dai del personaggio di Giacomo è tutt’altro che buonista; nel tuo film si vede un ragazzo dal carattere difficile che non ispira sempre o solo la nostra simpatia.

Non ho mai voluto fare un ritratto buonista di Giacomo semplicemente perché non corrisponde alla realtà. Giacomo a volte ti dà fastidio, ti innervosisce, é come se avesse costantemente i nervi a fior di pelle. Lui esprime un sacco di emozioni, come per esempio la sorpresa o lo stupore, attraverso delle parole assolutamente spiazzate. Giacomo può urtare con il suo comportamento chi gli sta intorno, spesso ci si domanda infatti: ma perché si esprime in questo modo? La ragione di tutto ciò è che, in fondo, esiste un’incomunicabilità di base tra gli udenti e i non udenti.

Nella prima lunghissima sequenza del film scegli di filmare i tuoi protagonisti esclusivamente di spalle. Perché?

Prima di girare questo film avevo fatto un cortometraggio, Jagdfieber, in cui seguivo dei cacciatori che correvano e basta; lì era proprio necessario che stessi loro dietro per ovvi motivi… (ride). Ho trovato molto interessante che fossero loro a portarmi da qualche parte e non vice-versa, d’altra parte questo è anche un modo per scoprire i personaggi stessi pian piano, senza arrivarci direttamente.

Stefania e Giacomo sembrano, a loro volta, avanzare a tentoni nel bosco, un po’ persi, cercando la loro strada…

Durante la prima estate in cui abbiamo filmato andavamo già al fiume seguendo un sentiero abbastanza corto che Giacomo non conosceva. L’anno dopo ci siamo detti: proviamo ad andare in un’altra direzione e ci siamo veramente persi! Da un certo punto in poi non sapevamo più dove stavamo andando, sapevamo solo di volere arrivare al fiume. In quel momento c’è stata una piccola crisi in seno all’equipe; per fortuna poi, una volta trovato il fiume, tutto è stato perfetto!

ll tuo film segue una modalità descrittiva senza un vero e proprio sviluppo narrativo poi, nell’ultima parte, l’apparizione improvvisa di un’altra ragazza dà una svolta completamente inattesa alla vicenda. Mi puoi spiegare questa transizione, questo passaggio?

Io avevo previsto di girare solo con Stefania e basta. Durante le riprese però Giacomo ha conosciuto una ragazza, Barbara appunto: questo è un fatto reale! Ho trovato straordinario il fatto che Giacomo si fosse messo con una ragazza per la prima volta e che anche lei fosse sorda. Questa situazione mi è sembrata talmente eccezionale che ho sentito il desiderio di filmarla. Con Barbara abbiamo girato per due pomeriggi. Ovviamente non la conoscevo, per questo sia io che l’equipe siamo sempre rimasti ad una certa distanza. Durante le riprese &eg
rave; successo un fatto stranissimo dovuto al nostro modo di lavorare: di solito infatti arriviamo sul posto ed aspettiamo, non iniziamo mai a girare subito. Un giorno stavamo osservando i due da lontano; dopo un po’ loro si sono completamente lasciati andare e noi abbiamo iniziato ad avvicinarci con la telecamera poi, improvvisamente, abbiamo visto che Barbara dava una lettera a Giacomo e che lui cominciava a piangere. Lì per lì abbiamo pensato che si fossero lasciati. Per fortuna si trattava invece di una lettera d’amore talmente bella da fare venire le lacrime agli occhi di Giacomo. Il testo della lettera è proprio quello che Barbara ha accettato di leggere, con grande generosità, alla fine del film. Più che una sorpresa, questo è stato un vero miracolo; un miracolo a dire il vero un po’ meritato visto che, da due anni, stavamo filmando ostinatamente tutto quanto succedeva. È stato come se avessi cercato a lungo qualcosa su cui non sapevo mettere delle parole… Poi, improvvisamente, questo ‘qualcosa’ si è manifestato, ed io mi sono detto meravigliato: ‘Ah! Eccolo lì!’

Come si è svolto il montaggio?

Il lavoro di montaggio è stato abbastanza impegnativo. Ho montato il film insieme a João Nicolau, un regista portoghese, mio amico, che ha lavorato, fra l’altro, anche come montatore sull’ultimo film di João César Monteiro, Vai E Ven (2002). Una volta giunti a questa fase si sarebbe trattato, in fin dei conti, di mischiare il digitale con la pellicola, ma mi sono reso conto che questo non mi piaceva; così alla fine ho usato solo le parti girate in pellicola.

Ci sono dei registi che ti hanno influenzato in modo particolare?

Mi riconosco abbastanza nel cinema asiatico; mi piace Naomi Kawase, per esempio, o Apichatpong Weerasethakul, poi la Nouvelle Vague, Rozier ed ancora Jean Rouch che intrattiene una dimensione ludica con i suoi personaggi. Quando ho rivisto il mio film e la prima sequenza in cui i due personaggi parlano, ma li si vede solo di spalle, ho pensato che avrei potuto benissimo sostituire il suono in diretta con un commento fatto a posteriori da loro due, come faceva Rouch, appunto.

Quali sono le soddisfazioni che questo film ti ha dato e quali sono state le difficoltà che hai affrontato nel farlo?

Sapendo da dove siamo partiti, la soddisfazione maggiore, direi, deriva proprio dalle difficoltà che siamo riusciti a superare. Tutto è nato da una vera urgenza perché Giacomo doveva farsi operare quindi, pur non avendo i soldi necessari, siamo andati in produzione. La produzione del film è stata molto tormentata: abbiamo cominciato noi da soli – cioè io e i miei tre miei amici di scuola del cinema, la troupe del film – fondando un’associazione in Belgio. Ci siamo messi a girare, ovviamente in pellicola, ed è stato un caos, (ride) poi, per fortuna, è arrivato Paolo Benzi, il produttore italiano, e le cose sono diventate un po’ più serie. Il film non apparteneva ad una categoria ben definibile, era un documentario e non lo era, ovviamente, in questo caso, le televisioni non ti danno soldi. Alla fine abbiamo avuto solo dei finanziamenti pubblici; in Italia dalla regione del Friuli, in Francia dal CNC ma per un cortometraggio, e poi in Belgio per un documentario. È stato un processo molto laborioso… Arrivare qui, con questa cosa fatta fra di noi, in modo molto artigianale, fa veramente piacere e poi c’è stata la riconoscenza del premio!

E Giacomo, come ha vissuto tutto questo?

Giacomo è molto, molto contento!

Foto: Copywrite: Festival del Film Locarno/Vanetti.

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