Accade abbastanza di frequente nei grandi festival che le visioni più interessanti emergano più che dai concorsi principali, dalle sezioni collaterali. Questo testimonia di solito della qualità di una rassegna, che si verifica non sui nomi altisonanti che mette in mostra sulla propria passerella, bensì sulla capacità di fiutare il talento e le nuove tendenze, di scoprire e proporre dai suoi schermi cinema nuovo. Qualcosa del genere è probabilmente avvenuto anche al festival di Locarno di quest’anno, in particolare nella sezione Cineasti del presente (riservata esclusivamente a opere prime e seconde) che ha proposto numerosi lavori degni di nota. Tra questi, tre in particolare hanno colpito l’attenzione di chi scrive, anche per la circostanza di gravitare intorno a un elemento comune di grande suggestione: la rappresentazione della memoria.

In The Fourth Portrait il taiwanese Chung Mong-Hong mette in scena la difficoltà a elaborare il ricordo. Se infatti a un primo livello il suo film è la storia di un bambino un po’ speciale costretto a crescere troppo in fretta causa la dissoluzione (figurata e non) del suo nucleo familiare, a un livello più profondo il piccolo protagonista – la sua immaginazione – è il veicolo attraverso cui viene elaborato un lutto.

Dopo la morte del padre, l’undicenne Xiang si ritrova a vivere con la madre, tenutaria di un bordello, e un patrigno odioso e violento. Suoi unici conforti sono l’anziano bidello della scuola, un uomo dalla scorza ruvida ma con un fondo di grande bontà, e un ragazzo più grande, un ladruncolo panzuto e simpatico. In sogno continua a perseguitarlo il fantasma di un fratello scomparso anni prima che Xiang non ha mai conosciuto e che reclama il disvelamento di una terribile verità: è stato proprio il patrigno a ucciderlo.

L’autore ha dichiarato che lo spunto per The Fourth Portrait gli è venuto dalla cronaca. Ogni anno a Taiwan spariscono più di cento bambini, uno su quattro non viene più ritrovato: che cosa succede a quei ragazzini? sono ancora vivi? – si chiede Chung. Eppure il suo non è un film a tesi, non soffre di alcun appesantimento didascalico. La sparizione fisica si fa vuoto affettivo, che si “concretizza” in fantasma. L’elemento interessante è che Xiang è oggetto di una specie di transfert, per cui il suo inconscio si fa carico del senso dei colpa dei genitori producendo un ricordo che in realtà non può appartenergli. Il disegno è la forma attraverso la quale lui, taciturno e schivo, esprime le sue emozioni più profonde e quindi dà forma alla presenza che lo ossessiona. I quattro ritratti che compone a scuola e che danno il titolo al film ne scandiscono la capitolazione ma scandiscono soprattutto le tappe del suo percorso di elaborazione di quella presenza/assenza. Nell’ultimo, il più impegnativo, sarà chiamato a disegnare finalmente se stesso, siglando la definitiva emancipazione.

Se il piccolo Xiang cerca di catturare un fantasma con la matita, in Nijyu Isseiki la protagonista Kanan ci prova con una telecamera digitale. Convinta di essere perseguitata da un’entità maligna visibile solo ai suoi occhi, e che forse è lo spirito di suo padre suicidatosi anni prima, Kanan ha bisogno di una prova da mostrare agli scettici amici e parenti. Quel che cerca è una immagine memoriale condivisa.

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Il breve (60 minuti scarsi) lavoro del giapponese Takahiro Yamauchi, anche sceneggiatore e montatore, è di certo il più misterioso ma anche forse il più folgorante dei tre titoli, mostrando una libertà espressiva e una disinvoltura “teorica” non comuni. Dal punto di vista narrativo il suo Nijyu Isseiki (Intolerance Now il titolo per l’estero) sembra una ghost-story come tante ne ha proposte il cinema asiatico negli ultimi anni: ovviamente coloro ai quali Kanan mostrerà il video del fantasma moriranno uno ad uno. Dal punto di vista visivo però il film, girato in digitale low-budget, spazia sorprendentemente tra immagini sovrapposte, flashback e flashforward, pixel che diminuiscono sgranando le immagini fino all’indistinzione, mescolanza di sorgenti e di formati diversi e così via, quasi a voler sperimentare tutte le possibilità offerte dal mezzo leggero, e finendo per annullare qualsiasi chance di distinguere, in ciò che viene raccontato, tra realtà e immaginazione.

Così, nell’unica sequenza in cui sia visibile, il fantasma che Yamauchi ci mostra ha le inedite non-fattezze di un’immagine televisiva! In Videodrome, il capolavoro profetico e illuminante di David Cronenberg, lo schermo della tv si (iper)umanizzava sotto gli occhi di Max Renn, facendosi bocca, carne pulsante e debordante fuori dal quadro. Ora forse quell’essere è uscito dal televisore, si è liberato dell’involucro-medium e vaga, essendo comunque pura immagine, affianco agli uomini e contro di essi. Nel pre-finale apocalittico, la strada che si apre lentamente al nostro sguardo scoprendosi disseminata di cadaveri ci dice, all’opposto di The Fourth Portrait, che nessun simulacro ci salverà dai nostri fantasmi.

Il francese Memory Lane, di Mikhaël Hers, è un film tutto impregnato di nostalgia. Lo è già nel titolo, lo è fin da subito, dai primi momenti che seguono i titoli di testa: sullo sfondo di un paesaggio autunnale, ripreso con lunghe e morbide carrellate attraverso un parco parigino in cui dominano vividi gialli e rossi, una voce over ci introduce alla storia e ci spiega che assisteremo a vicende accadute alcuni mesi prima, durante l’estate. Poi la voce, appartenente a quello che scopriremo essere il protagonista, ci abbandona lasciando spazio al lungo flashback che costituisce di fatto il film, per ritornare solo molto dopo, verso la metà della storia, e infine a chiusura.

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Questo breve prologo serve a immetterci nel mood malinconico del racconto: la rievocazione di un’estate parigina, forse l’ultima passata insieme da un gruppo di amici venticinquenni. La voce narrante, scritta con sensibilità e detta con una certa grazia leggera, è sospesa – e ci lascia sospesi – tra l’allusione a un sentimento importante sbocciato in quella estate e il riferimento altrettanto indefinito a una tragedia che vi ebbe luogo. Così sin dall’inizio l’amore e il dramma incombono sulle immagini di Memory Lane, come fosse la vita, ma sempre inscritti in una dimensione altra, che il tempo intercorso dagli eventi ha contribuito a determinare. Le giornate dei sette amici scorrono tra pomeriggi in piscina, pigri incontri, picnic, feste, piccoli drammi e sentimenti taciuti, dentro un tempo disperso quale è tipicamente quello delle vacanze. Alla fine sapremo della forte depressione che in quei giorni colpì uno dei ragazzi, ma intanto la memoria del protagonista-narratore ha già lavorato sulle immagini dando al dolore un senso: l’autonarrazione lenisce e forse cura.

Ma nella prima estate senza Eric Rohmer, la prima che non può prometterci un raggio
verde, la nostalgia di cui è intriso Memory Lane ha funzionato in qualche modo al quadrato. Troppo rohmeriani il soggetto del film, quel certo gusto per l’uso seduttivo della parola, l’ambientazione inestricabilmente legata a una stagione per non evocare il grande maestro scomparso; troppo rohmeriani i lineamenti di Marie Rivière, qui nel ruolo simbolico della madre del protagonista, il cui volto sarà per sempre legato alla Delphine de Le rayon vert. Anche queste, più sommessamente che quelle di Nijyu Isseiki, sono immagini che si addensano al contatto coi nostri occhi fino a debordare fuori dallo schermo.

 

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