Togliamoci, prima di entrare in questo straordinaria opera d’arte, due sassolini dalla scarpa. Il primo è verso coloro che ritengono assolutamente incomprensibile e noioso il film. Mi rivolgo in particolare a chi scrive di cinema. Ovviamente il loro parere è legittimo. Anche se leggendoli traspare un’irritazione di parte: non sono riusciti a giocare con delle prevedibili categorie razionali, con i concetti soliti in cui incasellare buona parte del cinema che passa davanti ai loro occhi.

Forse però spetta proprio a loro una scarto creativo per cercare di comprendere lynch. Che ammetto non essere affatto banale. Ma da uno che rilascia dichiarazioni del genere: “Mi piace pensare che si possa entrare a far parte di uno spazio che è uno spazio filmico, fosse solo per un solo momento… In questo spazio visivo e sonoro, si dovrebbe conoscere qualcosa, una sensazione, impossibile se non ci fosse il cinema”.

Cosa ci si può aspettare? Qualcosa in più di quanto dichiara, perché le parole non bastano a colmare il visibile dipanato in centosettantadue minuti di proiezione. Però ci si può provare. Richiede uno sforzo mentale, reso facile dalla quantità di stimoli sensoriali che si intersecano nella tessitura di INLAND EMPIRE. Il secondo sasso è dedicato a coloro che mettono l’accento sul lasciarsi andare alla visione. È un delirio, non tentare di rifletterci sopra, perderai solo tempo – sottintendono. Goditi le immagini e basta così. Ovviamente si tratta di un comportamento legittimo, ognuno fa come meglio crede. Però in questi consigli di visione, mi pare ci sia una svalutazione dello spettatore, una scarsa considerazione delle sue possibilità e un pregiudizio di fondo: esci dal tuo piccolo mondo borghese, dal tuo voler esser sensato, non ragionare che tanto non serve. Insomma si presume che le persone si facciano delle domande inutili di fronte a oggetti che sono misteriosi. Non dovrebbero farsele? Direi di sì. Magari dopo potrebbero trovare il modo di “condividere” il loro interrogativi.

Infine, e poi chiudo con i sassi, è oramai noto che il godere non esclude la partecipazione dell’intelletto, anzi al contrario: un piacere che non sia rapido e presto esaurito richiede inevitabilmente la partecipazione del nostro cervelletto.

“Il mistero di un mondo all’interno di altri mondi che si svela intorno a una donna innamorata e in pericolo” così è sintetizzata la storia nel pressbook del film dato alla stampa. Più che la narrazione degli avvenimenti sembra un enigma, una sorta di profezia, un oracolo, qualcosa di magico che dovrà ri-velarsi davanti allo schermo, senza l’ausilio di tracce limpide. Sembra dunque indicarci che ci inoltreremo oltre la superficie delle cose, spinti da amore (innamorata) e morte (il pericolo), grazie ad una “donna”. Insomma un viaggio mentale e fisico con l’attrice Nikki Grace (Laura Dern).

La trama non è facile da raccontare, ma può essere utile farlo. Ci provo, anche se sarà una riduzione, rispetto al come procede il racconto. Il nucleo centrale ha per protagonista Nikki scelta dal regista Kinsley Stewart (Jeremy Irons) per interpretare la storia di una moglie con un matrimonio in crisi a causa di un uomo (anche lui sposato). Il bello è l’attore Devon Berk, (Justin Theroux). A complicare il tutto, con una serie di coincidenze da capogiro, giunge la scoperta che il film su cui stanno lavorando (intitolato Il buio cielo del domani) è un remake di un’opera mai terminata per la morte dei due protagonisti, uccisi per gelosia dal marito di lei. Inoltre – e qui la testa inizia a girar forte – il marito di Nikki è particolarmente geloso e timoroso di fronte a Davon, noto Don Giovanni.

La complicazione nasce dal fatto che la vita reale di Nikki si confonde e si duplica con quella Susan Blue, cioè della donna protagonista del film maledetto, quello mai finito. Non solo, interviene anche una dimensione onirica, in cui sogno e incubo danno una ulteriore visione dell’identità di Nikki. C’è un passaggio che mostra in modo chiaro questo sdoppiamento multiplo. I due attori stanno sul set per delle prove, dal fondo dello studio hanno l’impressione di vedere e sentire qualcosa. In una scena successiva rivediamo nuovamente la stessa situazione ma dal punto di vista prima negatoci. Scopriamo così che è la stessa Nikki a vedere s stessa e il resto.

Come il titolo suggerisce INLAND EMPIRE (una zona vicino Los Angeles) è l’impero dell’interno. Mi pare che affrontiamo con Laura Dern un viaggio nell’interiorità, nelle diverse parti di noi in cui presente, passato e futuro (ipotetico) sono compresenti. Con lei abitiamo l’inconscio. Ed è solo con delle scelte e delle azioni, prima di tutto interiori, che si esce dal mondo della potenzialità per entrare in quello delle conseguenze.

Certo lynch costruisce figure alimentate più dalla fantasia che da argomentazioni. I dettagli iperrealistici, i sottofondi sonori, le canzoni, le voci fuori campo, il deambulare per oscuri corridori, le porte che si aprono verso altri mondi, i cambi inaspettati da un luogo ad un altro, le anticipazioni narrative spiazzano e coinvolgono emotivamente lo spettatore. Ne esce fuori un esemplare intreccio di evidenza e latenza. Date queste condizioni i conti non tornano sempre. Non siamo nel campo della geometria o di un razionalità funzionale. Possiamo solo intuire il senso della famigliola con le teste di coniglio che vivono dentro una sitcom. Il passato caricaturale e orribile di Nikki? O anche le scene in polacco (sottotitolate) che sembrano essere un riferimento all’origine del film dal lei interpretato che deriva da “una leggenda di zingari polacchi”. In breve: siamo dentro un sogno in qualche modo organizzato che rassomiglia ad una esecuzione musicale. Inoltre la composizione non lineare dei “fatti” non pare giustificata solo dal ripercorrere per illuminazioni inconsce l’odissea di Nikki. E nemmeno da un vezzo formale.

C’è probabilmente qualcosa in più. In alcuni momenti chiave ci sono delle indicazioni, messe in bocca ad alcuni personaggi secondari, che ci indirizzano su quanto stiamo per vedere. Per esempio l’aiuto regista (Harry Dean Stanton) ci avvisa che le storie possono sovrapporsi, una finire nell’altra, accumularsi fino a perdere i contorni dei “soggetti”. Ma ancora più interessante risulta la Vicina di casa di Nikki (Diane Ladd), una vecchia signora diabolica, le cui parole rassomigliano a quelle delle streghe del Macbeth di Shakespeare. Non sono tanto comprensibili e rammentano una sorta di vaticinio, parole enigmatiche che aprono alla duplicità costitutiva e minacciosa di INLAND EMPIRE.

La Vicina dirige lo sguardo di Nikki verso questo mondo, la invita a intraprendere una viaggio “terapeutico” dove attraverserà il male, il dolore e la morte (si pensi ai passaggi in cui si fa riferimento alla violenza sessuale, ad abusi, alla prostituzione e altro ancora: con scene di realismo che contrastano ruvidamente con le precedenti). Infine si arriva, nei titoli di coda, ad una sorta di liberazione dalla decomposizione figurativa che per tutto il film ci ha fatto scendere e salire sulle stelle. La gioia del canto, una interpretazione di Sinnerman di Nina Simone, annun
cia nelle nostre teste una nuova lucidità, una nuova coscienza catturata passando nel caos. Non è un sapere chiaro quello che ci resta. lynch ci offre un’ esperienza con una scrittura ellittica, ora fin troppo coordinata ora bruscamente scoordinata, che ci obbliga a farci co-autori, a esporci a significati che il film non garantisce.

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