Lea è “lea”, ma solo perché c’è Marco Tullio Giordana.

Questa apparente banale tautologia nasconde invece un aspetto profondo, molto profondo. Su cui vorrei richiamare la vostra attenzione.

Fareste torto al regista, e subito dopo al sottoscritto, se mi chiedeste la trama del film: la storia è drammatica e al contempo banale, una storia di morti ammazzati tipica del nostro Sud e del nostro tempo. Calabria, Sicilia o Campania, che differenza fa?

Peraltro raccontata benissimo, senza una pecca o una sbavatura. Con attori diretti magistralmente. Ci potete scrivere sopra un manuale. Fila via liscia e scorticante fino alla fine. Ma lasciatemi dire che, aprendo un giornale qualsiasi, in una mattina italiana qualsiasi di questo anno di grazia 2015, ne trovate di simili a iosa.  

Non è la storia il punto.

Credo che il punto siano due linee, due disegni che si intrecciano e si scambiano di posizione, come i due binari dell’elica del DNA. Uno è il filo personale del regista. Dove si colloca e cosa segna questo film nella produzione di Marco Tullio Giordana? L’altra è il filo nascosto, emblematico, simbolico che è contenuto (e giace silenziosamente) alla base di questo suo piccolo capolavoro.

E di cui “lea”, con la “l” minuscola, è solo l’occasione, lo spunto. Da non confondere con la storia di Lea, Lea Garofalo, la persona reale che ha vissuto ciò che il film narra, insieme alla vera altra protagonista di questo racconto, la figlia Denise.

Non voglio annoiarvi con spiegazioni pedisseque o didascaliche. Lasciatemi quindi tracciare solo il disegno generale dell’elica, poi (: consiglio) le traversine dei binari mettetecele voi, assistendo alla imminente proiezione sul piccolo schermo (il 19 Novembre su Rai 1).

Partiamo dal secondo filo, il binario interno. Poi riprenderemo il primo, quello del regista.

Mi sbaglierò, ma Marco Tullio Giordana segnala con mano leggerissima uno degli elementi fondamentali che caratterizzano la nostra epoca e la nostra storia: la regressione. E lo fa con piccole pennellate allusive, piccoli indizi sullo sfondo della scelta artistica di usare la lingua naturale dei personaggi, un dialetto stretto (a volte comprensibile solo  grazie ai sottotitoli in inglese che l’anteprima al Roma Fiction Fest necessariamente riportava).

C’è una scena, durante il processo per l’omicidio di Lea, apparentemente senza senso, ma che costituisce un (o “il”) segnale del regista. Il campanello d’allarme. Carlo Cosco, il “quasi marito”, il “partner” di Lea, padre di sua figlia e suo assassino, chiede di fare una dichiarazione iniziale, con il pronto consenso del giudice. E non dice niente, apparentemente. Dice solo: per me parlerà il mio avvocato, che è pratico con la lingua italiana. Lui, avendo rubato anche il titolo di terza media, con la lingua non ci sa fare. Punto.

Un troglodita, che dichiara la sua “regressione”. Lasciando ad un altro troglodita, “più pratico e’ cheste cose accà”, il compito di parlare in sua vece. La regressione linguistica come emblema della regressione generale, epocale.

Vale a dire, il popolo sta regredendo. L’Italia è bella solo vista in cartolina, dall’alto, come ce la mostra il regista ad inizio di ciascuna sequenza. Come negli “intervalli” televisivi di una volta, con l’arpa che commentava le vedute del Belpaese quando la programmazione televisiva era in affanno. Chi ha qualche annetto sulle spalle, sa bene di cosa stia parlando. E Marco Tullio Giordana cita proprio il suo produttore, la Rai, ma con un senso appunto di sguardo rivolto all’indietro.

Questa scena fa il paio con la primissima. Lei, “lea”, raggiunge il suo futuro marito-omicida al pascolo sull’Aspromonte, sono i loro primi incontri. Uno scenario con il calendario riportato indietro di mille anni almeno. Un presepe. Lea è rude, ma dice in dialetto la frase magica, rispondendo a Cosco che la vuole rimandare indietro per non avere noie con il fratello: “Ma che siamo nel medioevo, qui?”.

Ecco il punto. Da gran signore, gentile e delicato, quale è Marco Tullio Giordana, alla presentazione del suo film al pubblico accorso all’Auditorium di Via della Conciliazione, non ha dato alcuna spiegazione, non h fornito alcun indizio. Ha detto solo: il film parlerà per me.

Era il tono giusto, perfetto. Andate a cercare nel film, e non nella storia di una povera “lea” qualsiasi, il senso ― sebbene ci dispiaccia a tutti immensamente per la sua tragica fine. Cercate il filo, da soli.

Io vi tratteggio ora anche il primo binario cui accennavo, la parabola espressiva di uno dei pochissimi registi italiani di cui ci possiamo vantare nel mondo. Vi do solo tre tappe, tre film, in rapporto diretto con la regressione contenuta nella involuzione linguistica (ma anche espressiva, sociale, culturale, umana perfino) così chiaramente delineata nel film.

  1. “La Meglio gioventù”. Le illusioni rivoluzionarie, lo slancio della ribellione giovanile degli anni sessanta e settanta che hanno scosso il Paese, rifluita nel terrorismo e nella frantumazione dei rapporti umani.
  2. “Romanzo di una strage”. Che fa un passo indietro e risale alle cause del riflusso e della mancata rivoluzione italiana, dando uno spaccato del medioevo innestato nelle istituzioni italiane.
  3. “lea”. Conto passi indietro. Il medioevo innestato nella società italiana. I trogloditi che siamo tornati ad essere noi italiani, oramai ridotti alle cerimonie di affiliazione al potere, di cui quella esibita è solo l’emblema che vale per tutte le altre, quelle senza santini e senza gocce di sangue, ma altrettanto in voga e praticate continuamente in ogni ambiente sociale italico.

Un medioevo che potete riconoscere benissimo anche in politica, ma è solo un esempio, per capirci. Non se ne abbiano a male i credenti nonché “fedeli” del Partito Democratico, che rispetto nel profondo. Ma quello che abbiamo davanti ai nostri occhi oggi, sulla ribalta della politica, è proprio una storia medievale. Gruppi politici organizzati per bande. Il Granducato di Toscana al potere, alleato con i Sanniti di De Luca. I Sabaudi in difficoltà, mentre solo qualche anno fa la Trinacria votava compatta per Forza Italia (61 a zero, se non ricordo male).

Non va meglio per gli altri partiti tradizionali.

Una lega lombardo-veneta che si rifà al carroccio di mille anni fa, con pensieri e teorie sull’immigrazione e sulla conduzione della cosa pubblica in sincronia perfetta con il calendario emotivo del trapassato millennio, ma lontanissime dalla moderna, razionale e democratica concezione che pur sarebbe necessaria. E, ancora paradossalmente, in sintonia invece con l’abbrutimento, la regressione, l’involuzione che “lea” denuncia. Di cui l’involuzione linguistica è solo appunto sintomo, segno.

Il resto è silenzio.

Posso commettere un secondo errore di interpretazione, ma l’altra suggestione fortissima nel film, è costituita dal rapporto linguaggio/verità. Mentono tutti, nel film. Tranne lea. Mentono i mafiosi, mentono i funzionari dello Stato. Mentono gli amici, mentono i testimoni.

In questo delirio di mancanza di verità, mancanza di punti cardinali, la goccia di mercurio impazzita che alberga nell’animo di Lea le fa compiere l’atto per noi più assurdo di tutti, ritornarsene al suo paesello ― dopo mille peripezie ― come una reietta, per offrirsi inerme al tiro di tutte le possibili vendette.

Lei aveva creduto nello Stato, aveva denunciato i suoi parenti e familiari. Aveva creduto nella “Modernità”. E quando viene tradita anche dalla polizia, perde la parola. Il linguaggio non regredisce più, si interrompe.

Lei muore in quel momento.

E con lei il nostro popolo che, se anche avesse potuto scrollarsi di dosso le pastoie di un passato atavico e lanciarsi verso il mondo moderno e postmoderno ― oggi, rimbalzando indietro e dissolvendosi in una regressione infinita di campanili trogloditi ― non esiste più, dobbiamo ammetterlo. Dobbiamo constatare, insieme a Marco Tullio Giordana, che no ― non ci sono scorciatoie nella storia.

Il popolo italiano non ha mai accettato o metabolizzato il Rinascimento e la fine del Medio Evo. Non ha mai neppure affrontato i concetti insiti nella Rivoluzione Francese, i diritti dei cittadini, i diritti individuali, l’orgoglio della propria libertà, la tensione verso la felicità conquistata con una sana ed onesta esistenza. Ci dovrà passare attraverso, un domani, se ne avrà la forza e la possibilità.

Oppure finirà come deve finire, una colonia della Cina. Ma non quella delle Guardie Rosse.

Di quell’altra.

 

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