I narratori dei Racconti fanno di tutto per giustificare o per nascondere, anche ai loro stessi occhi, l’attrazione per la seduttrice di turno, che sentono come una minaccia per la loro integrità morale o come il tradimento di un ideale. E le loro “menzogne” sono tanto più  pericolose e difficili da smascherare quanto meno sono consapevoli: i narratori rohmeriani mentono spesso soprattutto a se stessi. E’ molto facile infatti vederli contraddire nei fatti le volontà un attimo prima enunciate a parole: il narratore della Carriera di Susanna dichiara continuamente di essere infastidito da Suzanne, la ragazza dell’amico, per la sua totale mancanza di dignità, e di non sopportare la sua compagnia, eppure finisce sempre per accettare i suoi inviti; ugualmente Jean Louis, il protagonista de La mia notte con Maud non vuole andare al concerto con Vidal, non ha voglia di conoscere la sua amica Maud né tantomeno di restare a dormire da lei, ma un attimo dopo averlo affermato lo vediamo fare tutte queste cose. Si potrebbero trovare molti altri esempi.

Essendo questi narratori dei gran moralisti, il mancato adempimento dei propri propositi, l’essersi lasciati trasportare dagli eventi senza scegliere ogni volta sono cose piuttosto inammissibili, dunque il racconto servirà loro in un certo senso per “discolparsi”. Ed è proprio il desiderio sensuale il principale oggetto di rimozione in questi Racconti, ciò che i narratori si ingegneranno di nascondere o di far rientrare all’interno di una strategia ben definita, di un rischio calcolato (affermano spesso che era la consapevolezza dell’esistenza di un'”eletta” alla quale avevano giurato fedeltà, dunque di un limite, a renderli più  audaci nel gioco della seduzione).

Joel Magny  sostiene che “la vera suspence rohmeriana (non lontana dall’hitchcokiana) è nella corsa folle del linguaggio per mettersi a coincidere con i fatti” mettendo in evidenza il valore assegnato alla parola non solo nei Racconti morali, ma in tutto il cinema di Rohmer. Con essa i personaggi tentano di razionalizzare la realtà, di attenuarne le contraddizioni. Per esorcizzarne la minaccia è necessario che “il desiderio sia infine nominato, investito dalla coscienza.” La stessa ansia razionalizzatrice, lo stesso gusto per le teorizzazioni, si troverà, con ancora maggiore evidenza, nei film delle Comédies et Proverbes, trasferita però dalla voce narrante ai dialoghi (dall’OVER all’IN). Si accorcia la distanza temporale parole-immagini: i personaggi, anziché riflettere a posteriori così da trasformare l’esperienza in un racconto, lo fanno in medias res, confidandosi con amici ed amanti. Naturalmente questo tentativo di spiegarsi sentimenti ed azioni, non sempre riesce, la loro resta comunque una rappresentazione soggettiva e, come abbiamo visto, spesso non regge a una verifica con la storia raccontata dalle immagini.

D’altronde, afferma spesso Rohmer, è così pure nella vita, perché nei film dovrebb’essere altrimenti?  Quando ancora faceva solo il critico, in un intervento su “Les Temps modernes” il nostro cineasta lamentava proprio che al cinema non si mentisse mai abbastanza: al contrario che a teatro, dove il dialogo ha sulle spalle tutto il peso del racconto e deve essere dunque sempre veritiero, al cinema, come nella vita, esso è un semplice mezzo di azione sugli altri e può, anzi deve, essere messo in contrappunto con la parte visiva.

Alle frequenti accuse di impurità e di letterarietà rivolte al suo cinema, Rohmer risponderà che l’importante non è la quantità di parole ma il rapporto dialettico che un film riesce a instaurare fra testo e pellicola: la verità del film deve essere una “verità totalmente diversa da quella della lettera dei testi e dei movimenti.” Una verità che lo spettatore deve ricostruirsi da solo, stimolato proprio dalla sfasatura, dal leggero “scollamento” tra ciò che vede e ciò che sente. In questo modo la presenza di un testo finisce per esaltare, anziché annullare, la specificità dell’immagine. L’idea alla base, sempre sostenuta da Rohmer insieme a Bazin, è che non esista un linguaggio specifico delle immagini, nel senso di un codice di “segni” visivi rapportabili a quelli verbali (le parole) e dunque ad essi alternativi.  Esiste la ripresa, che è la possibilità di captare “ciò che succede una sola volta” , che sia un evento predisposto in un set o meno non ha importanza, e di fissarne per sempre forme, colori, movimenti, durate, suoni, parole. Questa proprietà della macchina da presa è l’unica, fondamentale specificità del cinema, ciò che basta a differenziarlo nettamente da tutte le altre arti. Per questo, ai loro occhi, non ha molto senso l’accusa di letterarietà o di “impurità” per un film che fa un uso abbondante del commento (che pure è, in un certo senso, l’immissione dello scritto nel cinema) o che non ha molta azione nella trama.

D’altronde il cinema francese si è sempre giovato delle contaminazioni con altre forme artistiche e di spettacolo. Basti pensare a Feuillade, Meliès, Pagnol, Guitry, Tati, Bresson fino ad arrivare all’epoca della Nouvelle Vague, che rappresenta in questo una ripresa della tradizione francese più  autentica, non soltanto cinematografica.

Roberto Turigliatto ha scritto: “Tutto il cinema francese, la sua corrente più  importante e profonda, che ne attraversa più  o meno sotterraneamente la storia e che riesce sempre a riemergere nei momenti di maggiore originalità e rinnovamento, gioca sull’eterogeneità: è un match serrato, fatto di scontri e conflitti, ma anche di contaminazioni, scambi, assimilazioni tra Lumière e le scritture e i linguaggi preesistenti alla macchina del cinema. Fa agire insieme il documento e la finzione, la parola e la scrittura, il materiale bruto e il codice, il crudo e il cotto, il cinema e tutte
le altre arti.

La parola in particolare, a partire dall’invenzione del sonoro, ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella cinematografia francese che, infatti, è stata spesso accusata di “bavarderie”. Renoir, Pagnol, Guitry, Cocteau, Bresson sono tutti cineasti che non hanno esitato a costruire dei film intorno a veri e propri flussi di parole e, non a caso, saranno tutti profondamente amati e rivalutati dai critici-registi dei “Cahiers du cinéma”. Alcuni studiosi, come Jean Douchet o Dominique Paini, hanno messo in evidenza come sia la cultura francese in generale che attribuisce un’importanza smisurata al linguaggio verbale in quanto unico mezzo per manifestare l’immaginario. Attraverso la parola si da’ una forma all’esistente, si prende possesso del mondo. Si tratta di un’idea profondamente francese che risale almeno alla tradizione libertina settecentesca (Diderot, Laclos, Sade) i cui eroi non la finiscono, appunto, di ricostruire la realtà attraverso forme di scrittura autobiografica quali le lettere, il diario intimo, ecc. I narratori di Rohmer, abbiamo visto, usano la parola con la medesima funzione ordinatrice e razionalizzatrice; il loro potere, tuttavia è notevolmente ridotto dalla presenza delle immagini che, implacabilmente oggettive e concrete, non sempre restituiscono la stessa realtà dipinta nei racconti-confessione. La parola, pur avendo un ruolo importante, non è più  l’unica padrona del gioco. Una certa dose di “libertinaggio”, sia per l’attitudine a vivere le avventure amorose come verifiche di una strategia, sia per il rapporto privilegiato con la parola e la scrittura, si può ritrovare senza dubbio, oltre che, naturalmente, nei protagonisti dei Racconti morali, in molti altri personaggi creati dai cineasti della Nouvelle vague: il Bertrand Morane dell’ Uomo che amava le donne ne è un esempio perfetto così come lo stesso Antoine Doinel che vediamo tanto spesso scrivere lettere, messaggi e infine anche un romanzo autobiografico, durante la sua lunga “carriera” cinematografica.

La Nouvelle Vague, dunque, rifiutando violentemente il cinema della tradition de qualité, non ha fatto altro che risalire alle origini, fino a riallacciarsi alla corrente più antica e autentica della cultura francese.

(Questo saggio è stato realizzato per una tesi di laurea dedicata all’uso delle voci narranti nel cinema francese. Lo pubblichiamo per rendere omaggio a un professore-cineasta che di tesi, sicuramente, ne ha ispirate tantissime.)

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