Menzionare l’Undici Settembre e lasciarlo sullo sfondo, partire da quel giorno per raccontare altro, senza retorica e limitando il facile sentimentalismo. Una sfida che, unita a quella canonica di trasformare in immagini un romanzo di successo e di spessore, presentava non pochi rischi. Tutto sommato, al netto di qualche dialogo troppo caricato e virato sullo “strappalacrime andante”, il lavoro di Stephen Daldry (The Reader – A Voce Alta, The Hours) può dirsi riuscito.

Il regista britannico, che già nel 2000 aveva posto al centro della scena un adolescente “difficile” (Billy Elliot, aspirante ballerino in una periferia inglese rude e machista), stavolta si focalizza sulla storia del piccolo Oskar Schell. Suo padre è morto nel crollo delle Torri Gemelle (“il giorno più brutto”, lo chiama il ragazzino), e lui è stato l’unico a sentire i suoi ultimi, disperati messaggi in segreteria. Un anno dopo, ritrova per caso una chiave, e un pezzo di carta con una scritta, Black. Con questi scarni indizi, Oskar si illude di poter conoscere qualcosa in più su suo padre (con cui amava sfidarsi in vere e proprie cacce al tesoro), o almeno di poterne sentire la vicinanza ancora una volta, e inizia un’ostinata ricerca della serratura che si apre con quella chiave.

Molto forte, incredibilmente vicino, più che una storia nella Storia, può essere definito una storia dopo la Storia. Se è vero che non manca nulla dell’immaginario audiovisivo post-Undici Settembre (le immagini al telegiornale, le ultime parole delle vittime, i funerali, le mura tempestate di foto dei dispersi…), è evidente anche che non è su questo che Daldry vuole soffermarsi, né tantomeno che voglia darne una sua personale interpretazione. L’attentato alle Torri è un mero pretesto (un aspetto che in alcuni casi è stato anche oggetto di critica verso i romanzi di Safran Foer – si veda anche la Shoah per Ogni cosa è illuminata – e che resta quindi fedele al testo), e quella di Oskar è una storia di formazione. Se infatti, a metà del film, in un attimo di scoramento, il ragazzo (buona la recitazione di Thomas Horn) lamenta di non sapere nulla più di quanto già sapesse all’inizio della ricerca, prima dei titoli di coda (non si svela qui il mistero della chiave) si sarà fatto una ragione – per quanto possibile – dell’assurda fine del padre (Tom Hanks, presente solo in flash-back), avrà ricucito il rapporto con la madre, vissuto un’avventura stimolante e fatto un’importante scoperta sulla sua famiglia. Un sottotesto, appena abbozzato e lasciato anche in questo caso sullo sfondo, che prende spunto da un’altra tragedia, quella della II Guerra Mondiale e del bombardamento di Dresda.

Due parole sono a questo punto da spendere per un personaggio-chiave di questa sottotrama, il misterioso inquilino in affitto a casa della nonna di Oskar, un anziano individuo che, dopo aver conosciuto e preso in simpatia l’orfanello, lo accompagna nelle sue spedizioni. Giganteggia nel ruolo Max Von Sydow, ottantaduenne “feticcio” bergmaniano, e forse mai nella vita avremmo immaginato di vederlo dividere la scena con la pur brava, ma veterana di un cinema agli antipodi, Sandra Bullock (che qui è la vedova di Hanks).

Si ha la netta impressione che il film decolli dal suo ingresso in campo, e le scene che più rimangono impresse sono proprio quelle del vecchio e del bambino per le strade di New York, al bar a pianificare le strategie, o in casa a scambiarsi confidenze.

L’Inquilino non parla, comunica solo attraverso un taccuino o mostrando i palmi delle mani, dove sono tatuati i monosillabi “sì” e “no”, ma Von Sydow con una magistrale prova d’attore ne fa il personaggio più espressivo del film. Una mimica magnetica, intensa e commovente, una tempistica perfetta, una presenza scenica da fuoriclasse, che da sola – per concludere – appaga lo spettatore e giustifica la visione del film.

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