di Fabrizio Funtò/La Vita in Comune  è stato presentato a Venezia dal suo regista Edoardo Winspeare nella rassegna Orizzonti.
Sotto una narrazione semplice, e talvolta fanciullesca, contiene un grande messaggio “inattuale” (avrebbe detto Nietzsche). Gli uomini hanno bisogno di una dimensione intellettuale perché la loro essenza non è materiale. Perché sono strabici, e confondono sempre le cose.
Gli esseri umani vivono e occupano una parte del pianeta, come ad esempio il Salento, di cui Winspeare è diventato un cantore appassionato. E sono dei bruti. Vivono nello stato perenne di reificazione, sono oggetti fra gli oggetti. E a volte sono oggetti criminali. A volte finiscono in galera.
Abbrutiti nella vita quotidiana, vivono e muoiono come delle bestie.
Non a caso, nella metafora totale adottata da Winspeare per il suo film, il luogo dove vivono si chiama “Disperata”. La disperazione che è alla base dell’essere. Stavo per scrivere “esser-ci”, ma lo avrebbero capito temo in pochi.
Dunque, nel Comune di Disperata due fratelli si ingegnano in rapine. Ma nel derubare un malcapitato avventore ad un distributore di benzina, si fa loro in contro un cane (la bestia fedele) che uno dei due, il più sensibile, Pati, ammazza con una (finta) pistola.
Pati finisce in prigione, mentre il fratello Angiolino la fa franca.
In prigione scatta il bivio, la decisione fondamentale che cambia la vita e che costituisce il paradosso sapiente: al posto di diventare amico intimo del boss della camorra con il quale divide la cella, e che lo irride per aver ucciso “solo” un cane (e non un cristiano), Pati segue invece le lezioni del Sindaco di Disperata (vale a dire della “guida” della comunità). Già, perché il Sindaco Filippo si trova a suo agio solo quando porta l’arte in carcere. E porta loro la Musica, la Poesia, la Letteratura.
Porta a coloro che hanno toccato il fondo la salvezza. Ai bruti, ai trogloditi, offre la possibilità di scoprire la bellezza dell’umanità.
Ci vuole tempo, ma alla fine ci si riesce.
Così Pati si appassiona. Comincia a capire che il suo pentimento per aver ucciso un cane innocente, e che oramai gli tormenta i sogni, può diventare la leva del suo riscatto, l’elemento fondamentale per comprendere ciò che c’è di buono in lui. Per vedersi diverso.
Un percorso parallelo a quello del fratello Angiolino — nel suo continuo confabulare per architettare la successiva rapina (per la quale la polizia prepara già la trappola).
La Poesia può cambiare il mondo?
Si, se scritta bene, e se bene indirizzata.
Papa Francesco entra anche lui nella metafora cinematografica di Winspeare, con lo stesso ruolo della Poesia. Ricevuta una lettera scritta a due mani dal sindaco e dall’ormai dimesso Pati, che lo implorano di contattare Angiolino per farlo desistere dal suo proposito criminale, il Papa interviene telefonicamente e spiega al riccioluto criminale cinquantenne Angiolino, insoddisfatto della propria vita ed in bilico fra la vita e la tragedia, che la bellezza del creato dipende dagli occhi che lo osservano. Occhi di fuoco e di bragia non possono che vedere un mondo infernale. Un mondo reificato. Occhi di pace e di cultura vedono un mondo diverso.
Il buono o cattivo volere può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti. Il mondo del felice è altro rispetto a quello dell’infelice. (Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, proposizione 6.43)
E così siamo arrivati al punto nodale della metafora. Che è anche il senso per il quale uno Stato Democratico dovrebbe fare di tutto per diffondere Cultura ed Arte fra i propri cittadini, solitamente intenti ai loro affari (come i membri e i consiglieri della giunta di Disperata).
Perché è vitale per uno Stato Democratico, e non solo per il Salento, che gli esseri umani trovino una strada per entrare dentro il mondo dell’astrazione, dentro la metafisica, di cui l’Arte è disciplina applicata. Dentro il mondo umano, non umanoide. Per migliorare se stessi, e per migliorare la loro comunità, il loro vivere associato, il loro distanziarsi dalla vita dei bruti.
To make this place a better place to live.
E il paradosso?
Sta tutto nella prima scena, in quella lumaca che lentamente, faticosamente ma ostinatamente è sul suo cammino. La lepre, qualunque lepre, potrebbe batterla in velocità: la velocità delle società contemporanee. Che si dimenticano della propria scia (storia). Che corrono verso il nulla. E che sono destinate a schiantarsi.

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