Impossibile non scomodare fin dai primi fotogrammi l’ultimo Godard, anche se accomuno i due registi solamente per un certo desiderio di anarchia stilistica e soprattutto per un’affezione che ritrovo in entrambi: la nostalgia. Anche nostalgia del presente come attimo appena passato dovuto alla rappresentazione. Sokurov sembra costretto in questo film a parlare di Europa e di Francia che risulta pretesto fin da subito, e lo fa in maniera quasi sprezzante basti pensare alle due caricature in rappresentanza della nazione: la svampita Marianna che si aggira per le stanze del museo ripetendo come narcotizzata libertè, egalitè, fraternitè e il tronfio Napoleone, chiusi, entrambi prigionieri (condannati a non morire mai?) all’interno della connotazione identitaria del proprio “costume” e quella francese-europea-Louvre. Sembra viva una contraddizione il regista, tra amore e odio per quell’arte su cui poggia la camera a volte, con estrema delicatezza quasi a volerla accarezzare e altre volte indugia nel particolare, dilatando e distorcendo l’immagine, con sospetto intento di abuso, di violazione, come se scavare l’immagine nella sua parte più intima del pigmento, ne potesse svelare il segreto. E se si spera per un attimo di seguire la Storia (L’alleanza tra Jacques Jaujard, direttore del Museo del Louvre di Parigi dal 1940, e il gerarca nazista Conte Wolff-Metternich, responsabile dei beni artistici nella Francia occupata durante la Seconda Guerra Mondiale. Com’è noto, Jaujard salvò numerose opere d’arte dalla razzia nazista) la trama non si fa che perdersi, ulteriormente come dentro una matrioska, sballottati tra immagini e riferimenti che rimbalzano tra passato e presente come in un cargo in mezzo all’oceano, esposto alle intemperie della storia, al riparo nel sottocoperta, pieno di acqua e di fantasmi. Potere e arte, dittatori, nazioni, identità, alleanze che si creano per amore dell’arte, al regista in fondo sembra poco importi oltre la sua voce fuoricampo (quasi flusso di coscienza) autoreferenziale, la contrapposizione intima ed informale dell’interno della sua casa, il non riprender-si il volto in una concezione a-ritrattistica e quindi impersonale, ma il suo sguardo e il suo cuore tradiscono un’appartenenza tutta sovietica anche se cerca di dissimularla stravolgendone perfino l’inno nazionale ma il richiamo ai suoi padri Cecov e Tolstoj è forte, seppur si siano “addormentati” e hanno permesso lo scempio. Quello che resta e c’è da salvare è esclusivamente l’arte, la sublimazione massima, al di là di ogni identità. L’opera d’arte è su una nave sperduta nell’oceano che tenta di comunicare ma che vi riesce ad intermittenza e rimane irrangiungibile. Arte alla deriva. Oppure è Arte da portare in salvo, da togliere dalle grinfie del potere, arte da esportare, portare al di là del mare (se ci si riesce) fuori da ogni dominio e possesso o spazio-tempo riconoscibile, da ogni rivendicazione di patriottismo, perché l’arte è di tutti, di chi la sa cogliere, non di un popolo, né tanto meno di un trafugatore vanaglorioso. Arte imprigionata nei musei, tra teche e cornici, simulacri di morte e residenze storiche del potere che solo il sorriso ambiguo e imprendibile di Monnalisa può rendere libera.

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