di Andrea Spinellli/ La follia è l’incapacità di comunicare le tue idee. Scriveva così Paulo Coelho in “Veronika decide di morire”, la storia di una giovane che ritrovò la possibilità di funzionare proprio lì, dentro una clinica per malati di mente.

Anche La pazza gioia è il racconto di un disagio, l’odissea on the road di due donne che a Itaca non ci arriveranno mai. Anzi, proprio come Ulisse alla fine, anche Beatrice e Donatella tornano indietro, al punto di partenza, a dimostrazione che non c’è terra sulla quale ci si possa davvero salvare. Ma del viaggio resta almeno la scoperta di un valore di sé, a dispetto di dove ci si trovi. Decodificare le idee, appunto, tradurle a prescindere dalle regole della cosiddetta società.

Omologazione, mito della normalità, pianificazione dei comportamenti, lucentezza dell’involucro. E di contro tormento, spavento, sociofobia, alienazione. Virzì separa nettamente i due universi. Una diarchia in cui i due poteri non conciliano mai.

Da un lato un mondo di umanoidi, ometti e omuncoli. Sessuomani di provincia. Badanti col pallino dell’eredità. Padri sotto l’effetto dell’egomania. Mariti imbevuti della propria marginalità. Medici al di qua delle frontiere. Dall’altro il regno dei matti, quelli a cui brucia ancora il cuore, quelli da mettere sotto chiave, gli esiliati, i diversi, la sottospecie di una razza dedita all’estinzione di se stessa. Tutti iperstilizzati.

Ecco, questo è  il sapore della Pazza Gioia che ci lascia col gusto d’amaro in bocca. Se davvero quella della ponderatezza è una linea di confine arbitraria, perché doverla tracciare anche qui? Non stiamo nelle favole, ma in quella che vuol essere una rappresentazione verosimile. Non esistono didascalie, il Drago, Mangiafuoco o la Strega Cattiva sono icone di un percorso di utopia e moralismo. E dato che di viaggio di redenzione non potremo mai parlare, non c’è una ragione per manicheizzarne gli effetti.

Il pappone non è che, da un’altra prospettiva, lo stesso risultato dello psicotico. Così il discotecaro cinquantenne rispetto al depresso bipolare. O la moglie classista al cospetto dello schizofrenico. E’ l’espressione del disagio che cambia, non la sua sostanza. Il sedicente sano lo zittisce negli stimoli esterni, il definito matto lo fa urlare dentro di sé. Sopravvive – ma a che prezzo?
– l’uno, che non è conscio della sua maschera. Soccombe l’altro, che la maschera l’ha tolta. Ma entrambi sono figli di questo mondo.   

La Pazza Gioia, se da un lato arriva debole – oppure leggera nella migliore delle accezioni – a causa di questa topica demarcazione, oltre che per la piega narrativa spesso devota all’eccesso degli intrecci, dall’altro sovverte la china attraverso la forza dammaturgica di Beatrice e Donatella. Merito qui – e non ce ne voglia Virzì – della sensibilità e del contributo alla sceneggiatura dell’Archibugi.

Beatrice è una schizzata, bipolare, psicotica e paranoica, e la Bruna Tedeschi lascia senza fiato per le mille sfumature espressive che le regala. Ora nevrotica, ora passionale, ora manipolata, ora manipolante. Ora amorevole, ora crudele. Ora viva, ora morta. Segni riconoscibili del nostro tempo, che non è un altro tempo. Nevrosi diffuse non della post-modernità, ma della storia dell’uomo.

Donatella è una depressa che al suo soffrire preferirebbe l’elettroshock, soggiogata – per scelta e non – dal complesso sociale d’inferiorità. La sua parola preferita è “Scusa”, la riserva anche al padre che non ne vuol sapere di lei. Micaela Ramazzotti qui è brava a non sgomitare coll’altra, complice il suo personaggio nascosto e sociopatico di natura.

Non a caso torna a mente il “Questioni di cuore” di sette anni fa – quello tutto dell’Archibugi – dove, senza commercializzazione di sentimenti, si dipingeva l’incontro tra due malati di cuore. Anche lì, come in Virzì, l’amicizia di due persone al limite, offline rispetto a questo paese dei balocchi chiamato vita, non si risolve in catarsi né in premio di consolazione. Anzi è morte, oppure perdizione senza più limiti di tempo. L’eterna diversità sulla bocca degli altri. E’ la sentenza della – come ritroviamo ancora in Veronika – incapacità di spiegarti […] perché non capisci la lingua.

C’è solo una ragionevole salvezza, non per loro, per noi tutti. Senza strisce invalicabili di separazione. E’ l’eredità di una scoperta. Il lascito di un male di vivere finalmente da condividere. Così vale per Donatella e Beatrice alla fine del viaggio, al loro ritorno a “casa”. L’una sta in strada, boccheggia per la fatica, l’altra dalla finestra ha gli occhi bagnati. Si guardano, e non c’è niente di preconfezionato in quello sguardo. Si riconoscono per ciò che è stato. Si vivono a dispetto di tutto. Proprio di tutto.

Che il ricordo di quello sguardo ci aiuti al nostro risveglio, domani. E poi ancora dopodomani. E il giorno dopo ancora.

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