Qualche tempo fa Roma ha ospitato una piccola esposizione sulla storia del giocattolo. Si trattava di giochi scampati alla distruzione e al deterioramento del tempo evidentemente trattati da mani ben educate. Da un’osservazione anche superficiale saltava agli occhi come, dal pieno secolo dei Lumi in poi, ad una separazione sociale se ne sia affiancata un’altra, quella di genere, che nella riproduzione giocosa ha assunto i toni grotteschi dello specchio deformante. E se al futuro prete si regalava l’altare in miniatura e al militare soldatini, alla futura moglie andavano pentoline e fusi per filare. Ai maschietti ancora spade e cavallini e poi trenini, aerei, macchine e navi, in un trionfo di virilità e libertà d’azione; alle femmine bambole, ovvero il proprio doppio, poi bambolotti (già madri!) e infine case di bambole stipate all’inverosimile di oggetti e abitate al solito da nonne, madri, bambini e qualche nonno in uniforme di passaggio, tutto stipato e chiuso nella casa-prigione spesso ricoperta da una spolverata di finto oro. Ecco che, di fatto, maschi e femmine imparavano da subito a conoscere i propri rispettivi ruoli e ambiti d’azione.

La sera, dopo aver visto la curiosa mostra, sono incappata in una di quelle insonnie che mi ha portato nuovamente nei territori affascinanti e scomodi di Michelangelo Antonioni: La notte, il film. Dico di nuovo perché la prima volta che incontrai il suo cinema, e più in generale il cinema cosiddetto “cosciente”, avevo almeno tredici anni in meno e una piccola crisi in atto. Con lui feci la scoperta del mistero che m’angosciava. Eccola lì, formalizzata in immagini metaforiche, che mi si rivelò in tutta la sua portata -e, allora non lo sapevo, la sua durata: l’incomunicabilità. Ovvero, secondo quel racconto per immagini, la difficoltà di stringere rapporti veri e di usare parole autentiche, ma anche l’impossibilità di rimanere fermi in un’indifferenza che sa di sconfitta e di morte. Da qui la necessità di incamminarsi soli in strade poco battute in cui il caso diventa improvvisamente la rivelazione e quindi la nuova necessità, e poi il ritorno, l’esplicitazione della crisi, il tentativo del recupero, la separazione e un nuovo sguardo –se la vita non smette di aiutarci. La notte che trova sbocco nelle incerte luci dell’alba, e la donna, una Jeanne Moreau che riesce ad illuminare il suo dramma con brevi, immensi sorrisi che cambiano segno alle cose (la si immagina sul set più serioso giocosa e piena di leggerezza, saggia ma senza il vizio del giudicare), che riesce a dire “non ti amo più”, mentre la risposta dell’intellettuale Pontano, interpretato da un Mastroianni fisso e passivo, è la possessione violenta, debole e paralizzante. Il distacco fra loro è ormai irreversibile.

L’amore può finire e paralizzare oppure vivere e forse trovare sbocco altrove, le risate e i pensieri trovare riconoscimento in un’altra persona. Ma è la traiettoria di Lidia (Jeanne Moreau), donna borghese inquieta e sensibile, a portare al viaggio, alla conoscenza e infine alla probabile separazione. E’ lei che sente e pensa e agisce avendo davanti a sé l’uomo, assumendosi la responsabilità di una scelta che comunque sempre lo comprende, anche nella separazione (l’incitamento a conoscere la giovane Valentina-Vitti, spezzando così, con nuova vita, la catena della dipendenza che oramai dà solo cupi monosillabi e tormento). E’ lei che lascia dietro di sé il centro e che si avventura nei territori sconosciuti della periferia milanese, che riprende coscienza dei propri sensi frustrati a contatto con la visione della violenza dei corpi cui non si sottrae (la rissa) e che non sfugge all’immaginazione che la coinvolge in un pieno improvviso e sensato (i razzi artificiali che esplodono nel cielo). E’ lei che soffre davvero e che non si dà contegni davanti al compagno, che invece si rifugia nell’ironia: “ti prego, non minimizzare sempre la mia parte, posso avere anch’io dei pensieri”, gli dice.

   E dunque al tema portante dell’incomunicabilità si associa l’opportunità di trovare identificazione, per la prima volta, in un personaggio femminile finalmente ricettivo nei confronti dell’ambiente con cui interagisce. Personaggio femminile che comunque rimane misterioso, metaforico e quindi lontano dal tipo d’attenzione datagli dal contemporaneo cinema-verità (Identificazione di una donna è d’altronde il titolo, esemplare, dell’ultimo film importante di Antonioni. Come l’uomo che per lo più può trovare soddisfacente identificazione in molti film di Fellini). 

E infine il tema del lasciarsi e del ricominciare. Peraltro lo stesso Antonioni ha avuto modo di sperimentare, nella sua vita, come il confronto e l’affetto possano continuare nel cerchio forse più ampio dell’amicizia (storica la sua con la Vitti e quindi con la Reedgrave, oltre a quella con Jack Nicholson, affinità platonica che ha portato a dire al prolifico Nicholson che Professione reporter è il suo film più importante – ne ha addirittura comprato i diritti per la distribuzione americana – e che Antonioni è il regista con cui ha più condiviso e imparato: “in fondo, ho sempre cercato dopo, in tutti i miei film, anche in quelli da aspirante regista, Michelangelo. Parlo del suo modo di vedere cose e persone, immagini e creatività“).

   C’è poi un altro “insegnamento” importante, ovvero la necessità di muoversi in una struttura solida e significativa, rigorosa. Le immagini sono cesellate in metafore precise nelle quali Antonioni fa interagire il contesto (espresso dalla scenografia e dai luoghi, spesso fissi) con il movimento dei personaggi. Come verrà poi meglio sviluppato in Blow up, c’è già la scomposizione e la frantumazione della realtà e del senso, l’isolamento di porzioni di realtà oggettiva che viene resa simbolica e che viene approfondita attraverso il tempo, inteso nella sua concezione moderna di durata. La cinepresa è un occhio che decostruisce la realtà tendendo a svelare le mistificazioni, le rimozioni, le mediazioni per arrivare non ad un porto sicuro bensì per indagare, capire, e quindi permettere di scegliere lucidamente -che sia l’ultimo grido o la distruzione dalle cui macerie far partire una costruzione più consapevole. Una specie d’analisi continua in cui conta la traccia, l’immagine lasciata, che diventa oggetto di una ricerca sulla composizione, che lascia spazio all’interpretazione e al proseguimento: l’essenza della ricerca. In questo senso Antonioni, parlando del suo lavoro, ha detto di “attribuire ad una persona la sua storia, cioè la storia che coincide con la sua apparenza, con la sua posizione, il suo peso, il suo volume, in uno spazio“. Da qui il “figurativo metafisico” di Antonioni e la sua tentazione controllata verso l’astrazione in un contrappunto tra materia e altrove, tra tangibile e assoluto. Pensando alla trilogia, studio sulle forme dell’anima, a Deserto rosso, con i suoi colori antinaturalistici e simbolici, a Zabriskie point, con la sua esplosione decostruente dei consumi, e infine a Blow up, l’immagine dietro l’immagine verso una verità che non verrà mai afferrata, poiché la verità, basata su di una ricerca interiore seria e tenace, è forse meglio che non venga mai nominata -per poco che uno la dichiari o se ne glori, parafrasando il Calvino de Il barone rampante, ed ecco che tutto appare fatuo, senza senso, la verità scappata via. Un’ambivalenza feconda, in ogni caso, esaltata dall’uso del piano sequenza prolungato e del fuori campo eloquente e misterioso, che in Antonioni testimonia di quest’attitudine al viaggio più che all’arrivo, non lontana dall’intuizione poetica che ha fatto scrivere “tutte le immagini portano scritto: più in là!” (Eugenio Montale in L’agave sullo scoglio).

Ed è significativo che la traccia aperta sia stata portata avanti da tanti registi più giovani che hanno sviluppato i suoi temi fissati per immagini, si pensi a Wenders, Egoyan, Assayas, Kiarostami, Wong Kar-Wai, Dumont, Tsai Ming-Liang, Hou Hsiao Hsien e a molta parte dell’attuale cinema orientale della transizione e della “crisi” (anche i nuovi pluripremiati Jia Zhangke e Kim Ki-Duk, ad esempio). Un cinema, quello di questi autori, in cui anche la condizione femminile ha potuto trovare lo spazio che il contesto e le istanze sociali hanno via via richiesto. 

   Nel rigore formale della struttura e della composizione delle immagini (zeppe di luoghi e oggetti parlanti), emerge, evidente, l’interesse psicologico dell’autore nei confronti dei rapporti interpersonali (in questo senso è pregnante la dichiarazione del regista che si autodefinisce, alla faccia di chi lo ha sempre accusato di estetismo gratuito, un autore “di pancia”), un interesse che lo spinge, ad esempio, ad esaltare la fantasia nella scena in cui Valentina reinventa gli scacchi, il gioco delle regole per eccellenza. Come anche nella scena dell’incontro di Pontano-Mastroianni con la giovane ninfomane irresponsabile rinchiusa in clinica, che lo strappa al pensiero della morte dell’amico. Oppure l’altra, speculare, in cui Lidia guarda gli uomini svestiti che si picchiano, aggirandosi, poco dopo, tra strutture marmoree falliche che sostengono delle catene, spartiacque dello spazio intorno: tutto qui suggerisce la forza della violenza che scuote (“i vivi e i morti”, sentenzia ancora Lidia). E poi l’uso della musica, spesso dissonante, che accompagna i protagonisti – borghesi nel mezzo del cammino- intervallata dai numerosi silenzi, carichi di tensione, e dagli scoppi improvvisi di motori, clacson, aerei ed elicotteri -ecco che Lidia alza lo sguardo. Una colonna sonora nuova e un nuovo modo di fare cinema: metaforico, concreto, psicologico, sociale. Il finale di ogni suo film, poi, rimane sempre e significativamente aperto. 

Un’ultima considerazione: si è detto spesso che i film di Antonioni sono film datati. Ecco, credo che tale spiacevole sensazione sia al fondo superficiale, perché il suo è stato un pensiero in immagini che ha spesso anticipato il tempo futuro e che, in ogni caso, si è sempre confrontato con la storia, databile e relativa.                                       

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