[**12] – Sono passati 40 anni, ma ancora oggi la parola Woodstock rievoca con una certa nostalgia (nei cinquantenni, ma anche in chi, giovane oggi, avrebbe voluto vivere quegli anni), musica, raduno oceanico di giovani, sesso, libertà, possibilità di cambiare il mondo… Le immagini di repertorio che ci sono arrivate sono piene di colori, persone con vestiti sgargianti ed egocentrici, capelli lunghi, liberatorie nudità.

Per vedere l’ultimo film di Ang Lee e non rimanerne in qualche modo delusi, in primis bisogna dimenticare il concerto, la musica (non che manchi una bella colonna sonora con brani di quegli anni), non pensare di vedere esibizioni ricostruite o di repertorio, di sentire la musica di quel magico concerto. Niente di tutto questo… Ma è qui che sta l’originalità del film, il punto di vista particolare di Ang Lee sulla vicenda. I colori sono rimasti: tutto è virato a colori psichedelici, quasi a trasmettere la mitologia di quegli anni che devono aver toccato anche il regista nella sua gioventù. Centro della storia è un bizzarro personaggio Elliot Tiber (ispirato a una storia vera e magistralmente interpretato da Dimetri Martin): aspirante artista che vive a New York e che è costretto in quell’estate 1969 a rientrare al paese per dare una mano ai genitori e cercare di salvarli dal sicuro fallimento e perdita dell’ipotecato motel  – sgangheratissimo  e decadente  – che possiedono nell’anonimo paesino di  Bethel. La madre (interpretata da una bravissima Imelda Staunton) è di un’avarizia insopportabile (arriva a non cambiare le lenzuola tra un ospite e l’altro pur di risparmiare la lavanderia) e il padre (Henry Goodman) è un debole e vigliacco esemplare del sesso maschile. Tutti e tre hanno l’aria degli sfigati, dei perdenti… Ma Elliot, a capo della federazione dei commercianti del paese  e che ha avuto la licenza per un piccolo sfigatissimo festival di provincia, rivela invece doti imprenditoriali inaspettati, capacità eccezionali di saper cogliere le occasioni e così il piccolo centro e il suo improbabile motel entrano nella storia mondiale per aver ospitato il mega concerto di Woodstock. Tutta la preparazione, che coincide con la prima parte del film, è costellata di gag, personaggi divertenti, ritmo serrato, poi qualcosa nel racconto si perde tra le file dei giovani che arrivano, nelle tende del campo, nell’uso eccessivo dello split screen. Tanta buona preparazione, per non gustarci la conclusione: musica e luci rimarranno in lontananza.

Ma è il punto di vista di Elliot: il ragazzo spinto dal padre ad andare a vedere il mondo –  il concerto appunto – non vi arriverà mai bloccato da una coppia in camper che gli offre lsd: è quello il mondo? sono le visioni colorate e distorte (suggestivamente ricostruite dal regista) il mondo vero fuori dal paesino? Oppure è il divertente gioco nel fango in cui si scatenano Elliott  e un ex compagno di scuola rientrato dal Vietnam con problemi di testa, che non è neppure occasione di socializzazione per i due ragazzi? Certo Elliot prende consapevolezza della propria omosessualità (che forse già viveva a New York come s’intuisce da una telefonata con un amico) dando un bacio appassionato a uno dei ragazzi (belli e muscolosi) venuti a preparare l’evento (quindi sempre a margine, prima del concerto). La vitalità, la voglia di cambiare il mondo e la sensazione di poterlo fare vivificava quegli anni (come anche le proteste studentesche portate avanti in Europa), ma tutto ciò rimane ai margini del film.

Forse perché da chi ha vissuto quegli anni Woodstock è stata la fine dell’utopia, al concerto successivo dei Rolling Stone (al cui richiamo si chiude il film) viene infatti accoltellato un ragazzo dalla sicurezza… Già Woodstock in realtà nasce come un’enorme operazione finanziaria: è solo dopo aver venduto migliaia di biglietti che gli organizzatori (Michael Lang  – rappresentato come un angelo che scende dal cielo, John Roberts, Joel Rosenman  – dai soldi illimitati – e Artie Kornfeld) optano per la gratuità dell’evento perdendo di vista il numero delle persone che sarebbero venute. Molte persone attorno all’evento si arricchiscono in modo spropositato, approfittando delle utopie giovanili.

Non si dimenticheranno certo alcune scene come i genitori “fatti” in giardino perché hanno mangiato i biscotti all’haschisc o alcuni personaggi minori come quello ben interpretato da Liev Schreiber: un travestito biondo, guardia del corpo assai originale ma efficace…

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