Da non perdere Sabato 22 al Cineclub Detour di Via Urbana 107 a Roma (ore 20.30 e 22.30) – Una salutare scossa di emozione e riflessione, doppio movimento di cuore e cervello che sarebbe bene compiere come esercizio quotidiano in quanto individui, cittadini ed essere umani, ha attraversato, quanto mai attesa e inaspettata, l’ennesima, statica stagione del cinema italiano, che nonostante episodi sporadici e contestualizzati di vittorie di prestigiosi premi e festival internazionali (Sorrentino, Rosi, Fasulo) sta scivolando nella corriva produzione di commedie, ormai depurate da una sana, liberatoria volgarità e innalzate, piuttosto, su un simulacro di buon gusto e perbenismo utile per dimenticare la “crisi”, una sorta di franchising che si può evocare, ma non si osa raccontare, e così assolverci nel segno di un ammiccamento e di una pacca sulle spalle.

Perche La mia classe è un film importante? Innanzi tutto perche Daniele Gaglianone, cineasta radicale e libero, un fiore raro nel prato inaridito del nostro cinema, esce fuori non solo dalla logica rassicurante del genere, ma anche dalle forme di un linguaggio sempre più appiattito sul proporre una lettura unica, piatta, tendente alla semplificazione, una lettura che offre soluzioni e non pone domande, suscita unanimità  e consolazione e non discussione e turbamento. Questo processo può avvenire solo grazie ad un’onestà intellettuale e una sincerità spiazzante dove il regista, il suo protagonista, gli interpreti non professionisti e perfino la troupe entrano in campo, ma non per esporsi in maniera narcisista e autoreferenziale alla mdp che altrimenti non saprebbe cosa riprendere e come riprenderlo. Si tratta, al contrario, di un processo di contaminazione  sia estetico che narrativo in cui la Babele di lingue e linguaggi si fonde in un’unica, vibrante nuova forma che non può essere armoniosa perchè è la stessa materia del racconto, la realtà qui ed ora, ad essere aperta a fratture, deviazioni, ripensamenti.

La mia classe dunque non racconta, è. E’ il luogo dove un maestro si reca per insegnare la lingua italiana a un gruppo di extracomunitari provenienti da culture e paesi differenti, i quali spinti, probabilmente, dal desiderio di migliorare la loro condizione sociale ed economica (l’obiettivo è trovare un lavoro) cercano di acquisire i rudimenti della grammatica e dell’ortografia nonchè di imparare ad articolare i suoni. La mia classe è però anche una sorta di zona franca dove non dover pagare il dazio della propria identità e potersi al contrario esprimere, raccontare, riconoscere nella propria diversità. I monologhi in cui alcuni degli studenti vengono invitati a cimentarsi con la lingua italiana  raccontando le loro esperienze e il sentimento di nostalgia che li lega alla propria terra, è probabilmente uno dei momenti più toccanti e sinceri che ci ha regalato il cinema quando ha cercato di confrontarsi con il tema dell’immigrazione inteso come separazione, trauma, sogno, riscatto, e non solo perche gli “attori” sono autentici immigrati e le loro storie sono vere. Ormai il concetto di vero, filtrato dai mezzi di comunicazione di massa e riformulato tra le maglie affabulatorie della virtualità dei social network, ha infatti completamente smarrito il suo doppio legame con volti, corpi, silenzi, parole e luoghi. Gaglianone restituisce a tutto questo una dimensione di autenticità e lo sforzo che devono fare queste persone per raccontarsi in un idioma che non gli appartiene offre loro l’opportunità di scavare dentro un disagio e una ferita che va oltre la finalità, basica ma strumentale, di procurarsi mezzi per sopravvivere.

La mia classe, infine, è il set di un film diretto da Daniele Gaglianone e interpretato da Valerio Mastandrea, e questa ulteriore dimensione è inglobata, assimilata dal racconto, ne diventa anzi lo specchio, la cornice all’interno della quale, senza soluzione di continuità, i due piani narrativi si toccano fino a coincidere. Il ritiro del permesso di soggiorno di uno degli studentiattori e il reale disagio esistenziale e conflitto etico che provoca nel maestro Mastandrea finisce per toccare come un male oscuro tutta la classe e lo stesso Gaglianone, troupe compresa, essendo al dunque l’elaborazione in presa diretta di un evento realmente accaduto ad uno dei protagonisti. E questo incontroscontro con la realtà non è trattato come mera speculazione drammaturgica su un caso “umano” o come viatico per far passare chissà quale messaggio sociale. Non c’è mai un atteggiamento didascalico o ideologico; quello che viene miracolosamente filmato è invece il corto circuito che fa inceppare la macchina cinema, lo scacco matto a qualsiasi pretesa o ambizione di poter controllare la realtà attraverso la forma, lo smascheramento di poter far tornare tutti i conti dentro i limiti di un’inquadratura, confini che in Gaglianone sono sempre visibili, con quei primissimi piani che tendono a proiettare i volti nelle suggestioni in cui ci portano le parole che pronunciano, spesso piene di pathos e rassegnazione, talvolta pervase da un senso di morte eppure intrise di uno struggimento verso la vita. Proprio per questo, dopo un momento di sospensione e silenzio nei confronti di una situazione di cui non riveleremo l’evolversi  per non diminuire la massima intensità che con il minimo di mezzi espressivi il film raggiunge, possiamo affermare che Valerio Mastandrea offre la sua prova più alta alla quale, volutamente, non accostiamo gli aggettivi “attoriale” o “interpretativa”. In quel monologo finale, infatti, Valerio ci regala la sua indignazione trattenuta, il suo dolore rassegnato, perfino un ghigno di beffardo e amaro cinismo.

Il senso di un cinema che ammette con coraggiosa lucidità il confine del proprio territorio ed invita ad andare ad esplorare la realtà ciascuno con le proprie gambe, i propri occhi e la propria immaginazione.

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