In un festival che sempre più assomiglia a una sfiorita sfilata di moda, dove presenze e agiografie contano più di volti e ibridazioni autobiografiche -dov’è l’equivalente in immagini della feconda e spaesante non-fiction literature?- ecco che appunto l’identità sembra ancora la cifra con cui connotare molte delle visioni in programma. Laddove ciò sta forse a rivelare come il rovello sull’identità stia anche a compensare tanto la perdita di grandi ideali “oggettuali” quanto la tensione verso le tradizionali forme del sacro – e oramai anche delle più creative riconfigurazioni- eclissate da commerci e fondamentalismi spesso pure intrecciati.

Due film visti in questi giorni ci mettono di fronte a volti bifronti in cui per riconoscersi occorre andare lungo lo statuto ambiguo del testo e non verso i dettami lineari dello script, unica direzione che consente di delineare personaggi dall’identità realmente mobile che si collocano sui bordi della narrazione poetica e al limite della storia raccontata, comunicandoci in tal modo l’impossibilità di una effettiva definizione razionale sia di una identità che di una storia (entrambe sempre situate tanto nel vissuto reale quanto nel punto di vista del racconto).

A quest’ultima posizione dà corpo il film del regista taiwanese Edward Yang A brighter summer day, ambientato nella Taipei anni ’60, grande film in cui l’epopea si fa piccola -e non per il minutaggio che supera le quattro ore- e il respiro diventa quello sospeso e permeabile di un gruppo di adolescenti alle prese con i nazionalismi (il comunismo cinese e la guerra civile del 1949, le rovine giapponesi, le rivendicazioni identitarie della stessa isola di Taiwan) e le influenze culturali americane, determinate dall’invadente presenza statunitense in funzione anticomunista, e con le ricadute di questi sulle identità in formazione -gran parte della storia è espressa dalla lotta tra gang rivali e dalla ribellione contro le autorità corrotte. E’ appena il caso di sottolinerare come, questo di Yang, sia un film molto bello, che la festa di Roma ci permette di vedere (o rivedere) in versione restaurata a distanza di oltre vent’anni all’interno della sezione “I film della nostra vita” (appaiati, invero, secondo criteri abbastanza arbitrari se non amicali). Ed è anche il caso di azzardare come il regista taiwanese, posizionato, si direbbe, su idee e nostalgie conservatrici (“se non la sposti funziona ancora”, chiosa un personaggio rivolto a una vecchia radio a onde corte), ci faccia invece sentire come il cinema -e soprattutto come la realtà- si situi lungo un territorio autonomo che almeno in parte resiste e sfugge al nostro pensiero, restituendoci piuttosto le vie di fuga strabordanti dalle contraddizioni e ancor più il dolore per l’impossibilità di una compiuta definizione (e cioè di un completo controllo) dell’identità (sia individuale che afferente allo statuto della realtà). E ciò non cessa di spiazzarci e anche di commuoverci. Come anche nel cinema di Ozu e di Rohmer -“conservatori” nella narrazione e rivoluzionari e controcorrenti nel linguaggio. Anche perché Yang rigetta il facile romanticismo e gli estetismi dell’ineffabilità costruendo una storia articolata sia su più livelli narrativi che sulla polifonia di personaggi e relazioni (tra i personaggi e tra le epoche, intese quest’ultime come varianti temporali e culturali). Anche nella messa in scena ci sono molti piani diversi, laddove a primi piani e piani medi si alternano fuori campo e piani lunghi in cui i soggetti che parlano sono nascosti o oscurati da siepi, muri, specchi e altri oggetti, quasi a suggerirci la relatività e non oggettività di chi vive e agisce e di chi guarda e narra (e tenta di comprendere). Anche perché oltre quello sguardo (e davanti a quello specchio) ci siamo noi. Con Yang che non ci permette di fuggire in un facile altrove ma ci inchioda a una verità che è prima di tutto adesione sentimentale e affettiva a uno stato mutevole e fragile come quello dell’adolescenza. Un tempo blues, malinconico, di amori perduti e ingiustizie subite, di confini politici e personali violati, di vita che scorre in 35 mm e sfugge lungo i bordi. Come anche in Rusty il selvaggio di Coppola o nei film con Hopper e Dean, eroi ideali di questi ragazzini taiwanesi, con le giubbe militari kaki e le all-star ai piedi, che allo svanire di tutti i loro miti (illusioni moderne create da chi esercita il potere) possono rispondere soltanto con la propria (giovane) rabbia. Nel film di Coppola un indimenticabile Mickey Rourke (“Quello della moto”) spinge il fratello Rusty a raggiungere la meta ideale dell’Oceano Pacifico, dove c’è anche l’isola di Taiwan, con la speranza che i pesci combattenti possano fare altrettanto. Il protagonista del film di Yang invece non ce la fa, finendo per farsi sbarrare l’orizzonte dalla rabbia e dall’incapacità di esistere senza una garanzia di stabilità e di verità.

In questo senso controcorrente che sopravvive sotto forma di traccia cinematografica sembra manifestarsi la maggior lontananza fra A brighter summer day e Mistress America, film di Noah Baumbach in concorso. Film “carino” per antonomasia. Che scimmiotta (e forse rimpiange, e noi con lui!) l’Allen di quando c’era Diane Keaton e il Polanski di Carnage perdendosi però per strada il meglio di entrambi, anche quanto a potenza narrativa. La forza della forma (che dialoga con l’informe, potremmo dire) qui si perde a tutto (s)vantaggio del contenuto, mediato e declassato al punto da risultare innocuo quanto una sit-com da prima serata. Così che, benché attaccato a contenuti progressisti (ma in ogni caso portatori di valori e meriti molto individuali), come il talento che si infrange contro la mediocrità dell’utile, Baumbach ci lascia intendere (sai che novità) come il fallimento sia fatto (esistenziale) molto ma molto più interessante, salvo poi provvedere ad espellerne gli aspetti più sgradevoli, grotteschi e (figuriamoci!) radicali. Non ci sono sottotesti né sintomi né segni (né emozioni reali) da trovare nel ritmo sempre più incalzante di questo gag-movie a tavolino che invece, nelle intenzioni, vorrebbe forse svelare la precarietà dell’esistenza ai tempi della identità social. Si sorride un po’. Si ride per un vaffanculo e una stronza lanciati in faccia come fossero torte. E tutto, alla fine, rimane uguale a prima. O forse no, il declassamento c’é ed è il compiacimento.

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