I fratelli Jon e Wendy Savage, quarantenni estranei l’uno all’altra, si ritrovano a dover accudire il padre morente dai quali dispotismi si erano allontanati da tempo. Questa esperienza regressiva li porterà a riaffrontare dei punti irrisolti annodati nel passato.

Wendy, disordinata e insicura, insegue senza troppa convinzione il sogno del teatro nell’affollato East Village e passa il tempo ad aspettare le visite del maturo vicino di casa sposato; Jon il teatro invece lo insegna (con una ossessiva passione per quello socialmente impegnato di Bertold Brecht) in un’università della gelida Buffalo, vive in una casa fuori dal mondo ed è terrorizzato dal contatto fisico e dalla condivisione emotiva. Entrambi sensibili e con tendenze depressive, sono personaggi irrisolti e in qualche modo danneggiati che provocano tenerezza e identificazione. La regista sembra aver voluto loro molto bene.

Jon, con il suo continuo riferirsi a Brecht, sembra interpretare alla perfezione il ruolo di “straniato” alle cose e agli uomini. La fredda razionalizzazione delle difficoltà e del vissuto familiare lo tiene al riparo dai cambiamenti “climatici”, almeno fino a quando non dovrà urtare contro l’inaspettata realtà fatta di feci rabbiose e incontinenti di un padre diventato demente nell’assolata comunità per pensionati che è Sun City, di permessi di soggiorno non sufficienti a vivere liberamente con la propria compagna, di vecchie insicurezze e invidie pronte ad esplodere nell’abitacolo stretto e intimo di una macchina (una madre assente ben presto al suo ruolo, un padre irresponsabile, una sorella che lo emula).

In perfetto equilibrio tra umorismo, tragedia e vita reale, il film tiene il ritmo e non sbaglia un tono. Rinunciando a strappare la risata attraverso l’estremizzazione delle situazioni che nascono da inadeguatezza e dolore, fino al paradosso del ridicolo o della gag comica, come per esempio in Little Miss Sunshine, la Jenkins sembra più interessata a cogliere, senza forzature, quei piccoli avvenimenti che avvengono tra i personaggi e che tagliano a poco a poco la buccia dei loro egoismi difensivi (anche la sceneggiatura pare avere avuto una genesi piuttosto lunga). La regia è attenta alle microvariazioni che accadono nei due fratelli, alle parole lasciate in sospeso da Jon e alle mitragliate di Wendy. Le inquadrature li comprendono spesso entrambi, in uno spazio che delinea l’intimità dell’avvicinamento. Paradossalmente, non accade granché nella famiglia selvaggia; eppure alla fine i personaggi sembrano cambiare le loro vite. Senza esibire queste “prese di coscienza”, ecco che spetta a chi guarda, se incuriosito, riempire di pensieri e possibilità le immagini aperte.

Così anche gli sguardi strabici del padre, che aiutato dalla demenza continua a rimuovere il passato e a negare le responsabilità, fanno sorridere ma in modo molto amarognolo, non concedendo facili accomodamenti.

In questo avvicinamento con l’altro e con la propria parte rimossa, ecco che Wendy riuscirà infine a rappresentare la sua elaborata pièce teatrale autobiografica mentre Jon, accorso alle prove, riuscirà a piangere vedendo, in una trasfigurazione intrisa di realismo magico, se stesso bambino portato via, con una specie di gru, da una cucina abitata da una violenza non più solo intuibile.

La scrittura accurata e minimale, quasi da camera, che passa anche attraverso la scelta dei luoghi, dei mezzi di trasporto, sembra il punto di forza di questo film indipendente. La Jenkins rinuncia a drammatizzare le situazioni (diversamente da John Cassavetes, ad esempio, agitato indipendente, come anche da Sam Shepard, scrittore e sceneggiatore “familista” che predilige lo psicodramma: “Non siamo in un dramma di Sam Shepard!”, dice uno stizzito Jon alla sorella fuori controllo). Non mancano i riferimenti al contesto più ampio, il sussidio “post 11 settembre” che Wendy ammette di prendere dallo stato, che meglio sembrano giustificare quell’insicurezza alla base del ripiegamento in se stessi.

Le interpretazioni dei due protagonisti sono talmente ricche e articolate fin nelle più sottili sfumature da far sembrare i personaggi veri. La fotografia un po’ scomposta restituisce l’imperfezione, densa e complessa, della realtà.

Distacco e naturalezza, insomma, che fanno da contrappunto a dei personaggi molto umani, incompiuti e proprio per questo piuttosto interessanti. Verrebbe voglia di sapere come proseguirà la loro storia.

P.S. Avendo poco tempo per dividersi tra casting e produzione, Tamara Jenkins ha invitato gli attori nel suo appartamento di New York per una serie di prove non ufficiali e di discussioni sulla vita familiare dei Savage. “E’ stato tutto molto informale ma essenziale”, ricorda la regista. “Ho un vivido ricordo di loro tre seduti in soggiorno e intenti a leggere a voce alta le scene per la prima volta e di me che pensavo ‘ecco che all’improvviso i personaggi hanno preso vita nella stessa stanza in cui sono stati creati’. E’ stata un’emozione intensa”.

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