Negli ultimi anni il cinema italiano ha iniziato (finalmente) ad indagare, in modi ora drammatici ora con toni da commedia, il fenomeno dell’immigrazione, un fenomeno molto più ampio e articolato di tutte le semplificazioni televisive che ricorrono sovente a contrapposizioni di tipo manicheo per spiegare un mondo in fin dei conti ancora molto oscuro. Chi dimostra invece di conoscerlo, e bene, è Laura Muscardin, alla sua seconda prova da cineasta dopo Giorni del 2001, che confeziona una piacevole commedia lontana da troppi cliche, che parla di immigrazione, di confronto tra culture diverse e quindi di identità. Quella di Thierno Thiam, protagonista assoluto di un viaggio cinematografico che dal Senegal lo conduce fino in Italia con un sogno, quello di lavorare nella moda, che sarà più forte di tutti i sacrifici e di qualsisi tentazione a intraprendere strade sbagliate che si presenteranno sul suo cammino.

In Italia Billo, soprannome da lui stesso inventato, ne passerà di tutti i colori, scambiato per un terrorista islamico e accusato ingiustamente di molestie sessuali, ma riuscirà anche ad incontrare l’amore di Laura (la sorprendente Susy Laude) e l’affetto del suo atipico gruppo di amici. Ma proprio quando Billo si è perfettamente integrato nella sua nuova vita occidentale, l’Africa lo richiama all’ordine; la madre gli ha infatti organizzato il matrimonio con la sua vecchia amata, la ragazza alla quale da piccolo lui non poteva nemmeno rivolgere la parola, perché (ebbene anche lì in Africa!) di estrazione sociale diversa, lei figlia del medico del villaggio, lui povero e senza padre. Il film si conclude con un doppio matrimonio – Billo, musulmano, può avere fino a quattro mogli – in un finale aperto e senza facili soluzioni, come aperte sono le vite e le possibilità di tutti i protagonisti.

E’ un film questo che parla soprattutto di identità, un’identità sospesa, sempre in bilico, non solo quella di Billo, legato alle sue origini ma affascinato dalla nuova dimensione occidentale, ma anche quelle di tutti gli altri protagonisti. Proprio i personaggi rappresentano forse il pregio migliore del film, per la loro caratterizzazione mai univoca, i cui contorni non sono netti e definiti una volta per tutte. Tutti sono di più di quello che appaiono, il che li rende ricchi e sorprendentemente “vivi”, ognuno alla ricerca della propria dimensione, come Laura, anticonformista ma anche amante gelosa, il fratello Paolo, gay all’avanguardia ma accusato di maschilismo, il simpaticissimo amico nero di Billo, immigrato ma fuori da logiche separazioniste. Insomma la Muscardin costruisce un universo attraente di storie e personaggi che attinge al meglio della commedia all’italiana con ottimi tempi comici e battute sempre azzeccate.

La “sospensione identitaria” si rispecchia nell’impianto del racconto che procede su due piani paralleli, con una narrazione non lineare che alterna le ambientazioni africane. In un lungo flashback queste ricostruiscono la vita di Billo fin dall’infanzia, e le scene romane, fino poi a ricongiungersi in un presente dove le due “vite” si incontrano/scontrano dando al film un ritmo vivace e mai monotono. Semmai il problema è che in questa continua alternanza alcune scene di raccordo appaiono fin troppo esplicative e talvolta un po’ forzate, dando la sensazione di una materia narrativa a tratti frammentata; così come un po’ banali sono alcune soluzioni della sceneggiatura – si pensi all’espediente delle finte molestie – fin troppo prevedibili e scontate. Ciononostante Billo il gran Dakhaar fornisce uno sguardo nuovo e genuino, almeno nel cinema italiano, al mondo dell’immigrazione coi suoi problemi e le sue peculiarità, uno sguardo che attraverso la macchina da presa cattura particolari e colori (i colori intensi dell’Africa), soffermandosi delicatamente sugli occhi, sui corpi, sulle espressioni degli attori colti nei loro momenti più intimi. Sensazioni e colori che ti rimangono piacevolmente appiccicati addosso all’uscita della sala.  

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