Il pubblico ministero Jeanne Charmont-Killman, alle prese con un’indagine sulla concussione e la malversazione di diversi personaggi in vista, vede aumentare esponenzialmente il proprio potere. Tale acquisizione avrà effetti destabilizzanti sulla sua vita privata.

L’ultimo film di Claude Chabrol inizia con un piano sequenza a camera mobile, che, rispettando il tempo reale e però rendendolo oggetto di uno sguardo significativo, segue il presidente di un’importante società negli spazi larghi e confortevoli del suo ufficio, quindi lo incalza in un restringimento, un corridoio senza fronzoli, e infine lo incastra nel chiuso di un ascensore, rappresentandolo in preda ad un’escrescenza cutanea, psicosomatica si direbbe, e ad una segretaria petulante. E non a caso.

Di lì a poco, infatti, si ritroverà dentro un penitenziario, senza più il conforto delle cravatte boriose, delle camice provviste di colletto e polsini bianchi, sfumatura dell’impunità, e privo dell’asola rossa impuntata sulla giacca, un evidente ammiccamento agli altri partecipanti alla commedia del potere. Il giudice, interpretato dalla sempre perfetta Isabelle Huppert, lo costringerà a ridimensionare le proprie ambizioni e grandezze per vederlo infine ridotto a un piagnucoloso malato.

Parallelamente il marito della Charmont-Killman, cui la stessa, di origine comune, deve il suo importante cognome, vedrà ristretto sempre più il proprio spazio, occupato dalla scorta e dal giovane confidente della moglie, e la propria e reciproca visibilità, divenuta oramai una scialba ombra. Anch’egli quindi si produrrà in una patologia, quella della vittima che ricerca la fine.

E in effetti il determinato pubblico ministero sembra sempre più indulgere in un sadismo sospetto, una sorta di onnipotenza anch’essa impunita, che pare celare rivalse di classe (simili in qualche modo alle inquietudini della postina nel film “Il buio nella mente”), nonché competizioni di genere (in tal senso è forse da leggere la solidarietà, naturale e dagli uomini per niente prevista, che la lega alla collega che prenderà poi il suo posto).

Il mondo in cui la protagonista si muove -col quale collude-, è composto della casa condivisa con il marito, una grande casa borghese appartenente in esclusiva a quest’ultimo, e del lavoro in cui la stessa, fino a quando non dovrà scontrarsi con l’ineffabile eppure tangibilissimo principio della conservazione del potere, è libera di agire come meglio crede.

E alla libertà che usa nel portare avanti indagini serrate che mettono a nudo l’allegra promiscuità con la quale vengono investiti i capitali, al sarcasmo col quale modula le domande che pungolano i potenti nei loro vizi e nelle debolezze, fanno da contrappunto l’aggressività e l’elusività con le quali si sottrae alle domande del marito, al bisogno di Sebaud di sentire, alle sue richieste di monitoraggio della visibilità.

Richieste che riportano alla possibilità o meno di condividere ancora qualcosa e di farlo ora, al di là di passivi “mi ricordo” (come la proposta di Jeanne di rivitalizzare la vecchia casa della vecchia villeggiatura). Ma il giudice è sempre più preso dal lavoro, dalla missione che sola, oramai, sembra sollecitarle senso, emozioni.

“L’ebbrezza del potere”, peraltro, è la traduzione fedele dal francese del titolo del film. Quell’eccitazione che si ha quando si influenza il comportamento altrui, determinandone in misura rilevante le opinioni, le decisioni, le azioni. Piccoli dettagli di costume e d’ambiente sembrano giusto confermarlo: i suoi guanti rossi, indossati solo al lavoro, che pare quasi sventolare davanti ai perseguiti; la musicalità, di dissonante partitura, con la quale compie azioni pesanti e rischiose (la perquisizione dentro l’ufficio alla ricerca della cassaforte, davvero un balletto); la cena del “piranha”, Jeanne, a base di sushi…

Ma l’incertezza, non detta, non vista, che agita sempre più la razionale e sovrastante Jeanne, prorompe qua e là, disseminata in altre magnifiche inquadrature. Come quella in cui, lasciato il marito dopo un litigio violento, si avvia in piena notte verso la porta di casa portando con sé solo le guardie del corpo, bagaglio indispensabile, che dietro sua richiesta la condurranno nell’unico rifugio che sente suo: l’ufficio. Questa scena, non a caso, è anch’essa girata con la tecnica del piano sequenza, con la camera a rimanere sulla protagonista un secondo più del narrativamente “dovuto”, a cercare di cogliere quello che accade dopo il movimento. E il dopo, nella fattispecie, è lo sguardo smarrito di Jeanne/Isabelle, la sua paura, che la porterà infine a scontrarsi con i limiti, soggettivi e oggettivi, che fino ad allora sembravano non averle sfiorato, e in un certo qual modo sporcato, il bel viso. (ottobre 2006)

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