Hero – dietro la sua mascherata policromatica e rashomoniana – era la glorificazione del potere unico, centralista, assoluto, il solo capace di tenere insieme quell’immensa fetta di mondo e idea di stato che è la Cina. Era, quindi, il manifesto perfetto del nuovo espansionismo immaginifico cinese, capace di inglobare (riacquisendoli con caparbia) gli stilemi dell’azione made in Hong Kong, via Ching Siu-tung, Jet Li e Donnie Yen.

La foresta dei pugnali volanti – capovolgeva il banco con fulgida inventiva e spregiudicato cinismo: ode ribellistica alla violenza dell’amore, cantava la bella morte di outsiders sepolti nelle nevi di un tempo, e magari sospirava rimembrando le eroiche censure che la Quinta Generazione coi suoi generali Zhang Yimou, Chen Kaige, Tian Zhuanzhuang si erano appuntate come medaglie al merito nella campagna di conquista dei festival e della cinefilia occidentali.

La città proibita – chiude il cerchio sfoderando una parabola anticonfuciana che sposa le masse annichilenti dell’Ultimo imperatore ai décor deliranti di un Suspiria pechinese. Il potere è marcio, la rivolta inutile, la tradizione malata, la famiglia una pianta irrigata di sangue e veleno. Regna ormai incontrastato lo spettacolo inebriato di se stesso in cui l’esteta Zhang (oculatamente folle) distilla mélo, wuxia pian, kolossal e kammerspiel.

Supremo qualunquista o adepto della gratuità in compromissoria dell’arte? Emulo viscontiano o tardo zeffirelliano? Il mistero Zhang continua.

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