Il cambio culturale della Cina raccontato attraverso la vita quotidiana dei suoi cittadini e contadini: questo è l’approccio al proprio paese nei film cinesi presentati in concorso al Festival di Berlino 2007. Lost in Beijing di Yi Lu, censurato in Cina e mostrato interamente al Festival di Berlino, e Il matrimonio di Tuya di Wan Quan’an, premiato inaspettatamente dalla giuria come miglior film e appena uscito nelle sale italiane, con uno sguardo semi-documentaristico fanno vedere come i valori tradizionali vengano modificati da scelte individuali e come le esigenze della vita condizionino le relazioni amorose.

In questi film sono le giovani donne cinesi le protagoniste di un cambio culturale che si manifesta nella rottura delle forme di convivenza tradizionali. Lost in Beijing s’immerge negli intrecci sentimentali di due coppie pechinesi di diversa classe sociale mettendo in gioco i desideri e le delusioni di quattro persone che fanno un patto su un bambino di cui non conoscono il padre. La famiglia collettiva si realizza grazie alla giovane madre Ping Guo (Ping Guo è il titolo originale del film) che con diplomazia ed umiltà rende possibile la convivenza del bambino e dei suoi quattro genitori. Questo modello di famiglia, esclusivo e formato per un’esigenza pratica, funziona però solo per qualche tempo e in fondo mantiene i valori tradizionali: la ricerca della ricchezza, la sopravvalutazione dei figli rispetto alle figlie (pregano che l’embrione sia un maschio) ed il rispetto assoluto per i più vecchi e ricchi. Il fatto che il bambino sia nato a causa d’un abuso sessuale viene messo in secondo piano rispetto alla ricerca collettiva di stabilità. Questa ricerca di stabilità, nel film si manifesta esteticamente attraverso delle riprese instabili, mai ferme e in parte sfocate che seguono i percorsi della giovane madre Ping Guo per le strade di Pechino, passando dalla sua casetta povera alla casa dei suoi mecenati ricchi, dai quartieri rovinati della città vecchia ai grattacieli, ai saloni di massaggio. La forza del film, infatti, non è la storia raccontata, ma la scelta delle immagini: seguendo i percorsi di Ping Guo, la regista Yu Li quasi incidentalmente documenta i cambiamenti visibili della città che testimoniano il citatissimo boom economico cinese. Oltre alle impressioni della metropoli, è notevole l’approccio documentaristico nelle interazioni violente ed amorose degli amanti che la regista riesce a catturare in tutta la loro purezza e fisicità (un tipo di messa in scena molto più diffuso nel cinema orientale che in quello occidentale e che tra altro ha causato la censura del film in Cina).

Anche il film Il matrimonio di Tuya tematizza la ricerca di una nuova forma di convivenza familiare resa necessaria dalle necessità della vita, questa volta non della vita urbana, ma della vita contadina in mezzo al deserto della Mongolia interna (la parte cinese della Mongolia). Lì abita la giovane pastora Tuya con il marito disabile e due bambini, e combatte ogni giorno per garantire la sopravvivenza del suo piccolo nucleo familiare. Per Tuya cercare un nuovo marito che si prenda cura di lei e dei suoi bambini non è una scelta sentimentale, ma una necessità di sopravvivenza. Non volendo lasciare il marito malato, si trova davanti a un dilemma: le sue esigenze non corrispondono agli interessi dei potenziali mariti che non hanno intenzione di sposarsi con una donna ancora sposata e sono esclusivamente interessati alla proprietà della bella contadina.

yfyuIl desiderio di una convivenza alternativa alle strutture preesistenti in entrambi i film è legato strettamente alle protagoniste femminili. I mariti che nel film vengono associati ai bambini sono deboli ed imprigionati nella voglia di possesso, mentre le protagoniste Ping Guo e Tuya in modo pratico, quotidiano e reale riescono a coniugare l’altruismo e l’amore. Da questo punto di vista sembra che sia Lost in Beijing che Il matrimonio di Tuya ci dicano, attraverso il fallimento di queste donne, che la Cina non è abbastanza matura per le esigenze del futuro.

Rispetto alle immagini instabili di Lost in Beijing, che possono essere lette come una documentazione su come la vita urbana cinese si stia moltiplicando e velocizzando, Il matrimonio di Tuya sembra un viaggio rallentato nello spazio: con immagini tranquille e spaziose Wan Quan’an ci fa viaggiare con la pastora Tuya nel paesaggio sublime della Mongolia dove il boom economico non è ancora arrivato. Infatti, dell’espansione industriale della Cina che forza i pastori a lasciare il proprio paese, in questo film si vede poco. Gli oggetti di consumo e gli ospiti provenienti dalle città che ogni tanto entrano nel mondo di Tuya sono scarsi e non disturbano davvero la presenza di questo personaggio arcaico, quasi allegorico, che rispecchia perfettamente l’originalità e la natura del posto. Tuya, combattendo giorno per giorno per l’esistenza, sembra essere lontana da dubbi, riflessioni e desideri tipici dei “cittadini globali”, che forniscono il materiale sentimentale per una grande parte dei film attuali. Questa donna, attraversando uno spazio enorme con diversi mezzi di trasporto (a piedi, sul cammello, a cavallo, in macchina, in camion), rappresenta più un principio vitale che individualistico. Detto in altre parole la condizione umana in se stessa. Sicuramente anche per questo approccio universale e minimalista il film ha convinto la giuria del Festival di Berlino che negli ultimi anni sembra seguire più la regola “back to the roots” (tornare sulle storie ed i contenuti reali) che l’innovazione e l’espansione artistica.

Nonostante la bellezza delle immagini e la profondità della sua storia, il film rimane stranamente distante: la mostruosità e l’estraneità di questo mondo sembrano essere vissute come una soglia insuperabile. Forse questa sensazione fa parte dell’incapacità di una spettatrice cresciuta in un mondo mediatizzato, capitalistico, in gran parte sazio, che difficilmente riconosce la semplicità e la bellezza di cose come avere un pozzo davanti a casa, sposare qualcuno che si prenda cura per due,  attraversare uno spazio ed arrivare da qualche parte con i propri piedi.

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