Altro che ferma, la terra trema ancora a ridosso del Mediterraneo che bagna la Sicilia, e il mare continua spietato a prendersi gli uomini – i pescatori – nel pieno della vita. Tutto o quasi si perpetua immutabile da secoli in un’isola meravigliosa e innominata, nemmeno segnata sul mappamondo: solo mare e i pochi uomini che la natura tollera. La terraferma da qui è lontana, è un laggiù radicale, un luogo solo evocato, forse una leggenda (ricordate gli ortaggi giganteschi di Nuovomondo?). Per qualcuno è la civiltà e il progresso, ma per i più giunge sull’isola come una proiezione distorta, nella forma predatoria del turismo estivo o in quella autoritaria e razzista di un continente che respinge l’umanità.

Nel votarsi all’idea dell’altrove, l’assonanza col “fratello” Là-bas appare evidente ed emozionante, avvalorando le riflessioni veneziane sull’esistenza di uno sguardo cinematografico comune sulla questione-immigrazione. Ma quello di Crialese rimane un discorso personale, immune da possibili facili sociologismi, di solida coerenza con la propria poetica. Evidentemente troppo brutta per mostrarla, la terraferma continua a essere l’immagine mancante tra quelle, incantevoli, del suo acquatico cinema-fiaba: non a caso della Lampedusa di Respiro non c’era controcampo e l’America dei migranti si fermava al non-luogo di Ellis Island. Ma non c’è rimozione nel distogliere lo sguardo: è che bisogna cambiarlo, il nuovomondo, prima di abitarci. La terraferma allora è fuori dalla sala, è qui o (chissà) nel prossimo film, è dove Filippo e il suo sovversivo embrione di famiglia sono diretti. Per rifondarla.

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