Il Vigile fa ridere moltissimo dall’inizio alla fine. Alberto Sordi domina costantemente la scena, palleggiando sicuro con la sua effervescente comicità. Da principio è un disoccupato mammone, sfaticato in vestaglia, mai cresciuto e coccolato da una moglie mezza mamma, Marisa Merlini. Poi diventa un pubblico ufficiale da strapazzo, un pubblico pericolo, più che altro, un vero pazzo. Simpaticissimo, buffo, completamente fuori di melone. Farnetica, dichiara di essere “portato per i lavori ideologici, per la contemplazione, l’osservazione, la distensione, per guardare gli altri, studiare le psicologie umane”. Lo dice solo per fare colpo sulla diva Silva Koscina ed aggiunge: “Se devo confessare quali sono le mie inclinazioni, debbo dire che son più portato per l’arte, il canto, la musica, per recitare in teatro. Je faccio sentì ‘na bella poesia?”. Siamo di fronte a un Alberto in forma smagliante, esplosivo, in tutte le espressioni che meglio lo caratterizzano, con tante di quelle facce per cui passa alla storia e per cui si è fatto amare così tanto. Che cos’è la scena della vestizione se non fantastica comicità sordiana? “Me sento un altro, più forte più alto, pure ‘a voce m’esce mejo, più limpida, e poi me sento disinvolto”. Non é la prima volta, tra l’altro, con il film di Zampa, che Albertone indossa la divisa di vigile: già quattro anni prima, in Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo, del 1956, esagerava con le multe e perciò veniva trasferito fra le nebbie di Milano.

E’ un bambino, invece, all’inizio de Il Vigile, questo bizzarro ragazzone immaturo ed insanabile, di quarant’anni suonati, che cerca i soldi per le sigarette, che dà fastidio a chi lavora, che tutto il suo mestiere è fare svogliatamente la spesa, andare a zonzo a dar consigli a chiunque incontri, facendo sempre un gran casino, rischiando insulti e ceffoni ad ogni angolo di strada: “Er pennello deve passà prima orizzontale e poi verticale, sennò ce lasci ‘a striscia…”, dice ad un pittore edile che lavora in santa pace, e che gli risponde seccamente: “ahò… ma che voi ‘na pennellata ‘n testa”?”.

Si parte dalle passeggiate dispettose di questo mitico Otello Celletti, che vanno sempre a terminare contro una pernacchia proveniente dal bar. Dice di essere nobile, (“un chiletto di sangue nobile ce lo abbiamo tutti”), di aver fatto la guerra, e dopo anni di grande impegno e dedizione, secondo lui, è rimasto disoccupato, e quindi a posto con la sua informe coscienza. “M’hanno levato du schegge de granata qua daà coscia”, ripete sornione; “A Ote’, te tra una guera e n’antra te devi decide de fà quarcosa”, gli sussurrano non troppo a bassa voce i suoi parenti. Ma lui si considera un ex soldato e vuole sempre mostrare quella scheggia di granata che gli si sarebbe conficcata sul posteriore durante il conflitto. Lo ridice al figlio per l’ennesima volta, e la vuole far vedere pure al sindaco.E’ furbetto, questo Otello Celletti, come tutti i ragazzini capricciosi che quando vogliono una cosa non c’è verso di fermarli. E quella storia della passione per il mestiere di vigile in motocicletta, la brama talmente tanto che alla fine, mettendo in mezzo figlio e primo cittadino della sua città, riesce a trasformarla in un lavoro vero e proprio, alla faccia del tonto: “Paganini suonava il violino e tutti gli dicevano de fà er barbiere”, risponde Otello a chi gli dice di trovarsi un lavoro. Ad ogni uscita fisica e vocale dell’attore, cavolo, se c’è da ridere, e nessuno, nemmeno il più leghista dei leghisti, può permettersi di non apprezzare quel corpo morbido e tondeggiante, mai fermo e sempre in moto rettile, con una testa che si infila nelle spalle e poi rispunta fuori per un salto ed uno scatto, figlio di un’emotività intensa e repentina, tra paura e grandi slanci di ottimismo insano. Insomma, per gli amanti di Sordi Il Vigile è una vera e propria sagra: occhiate, parole, movimenti mitici, frasi indimenticabili, da schiattà da ride, direbbe uno dei personaggi de Il Marchese del Grillo, altro film cult dell’immortale Alberto.

Un’altra sparata delirante di Otello Celletti alla vigilia del comizio: “Io so un vigile ma Kruscev che faceva? Era minatore in siberia! E Mao? Era un semplice poeta, ma adesso comanda seicento milioni de cinesi che se movono… Allora parlamo dell’americani. Che faceva Truman? Venneva e cravatte! Poi pe cinqu’anni ha dominato er monno, ha vinto ‘a guera, ha tirato a bomba e s’é rimesso a venne e cravatte.”

Ma non è solo questo, Il Vigile di Luigi Zampa, uscito nel 1960 facendo strage di spettatori e diventando campione di incassi con 969 milioni e 259 mila lire di allora, un vero e proprio record. E’ molto di più, perché come Anni difficili e Anni facili, come L’arte d’arrangiarsi e come Il medico della mutua, anche Il vigile non è soltanto un film divertente, ma una pellicola piena del suo tempo: “una specie di rapporto sull’Italia del 1960, dove la cornice è soltanto una necessità allusiva, un espediente del parlar figurato”. Lo scriveva Giulio Cattivelli su Cinema Nuovo, aggiungendo che “dietro la vicenda di questo buffo Otello Celletti c’è anche il riflesso e l’esemplificazione di tutto un clima di malcostume politico e morale, di speculazioni, di convivenze, ricatti che purtroppo non possono considerarsi eccezioni”.

Raccontiamo da dove nasce Il vigilie, e perché questa preziosa commedia di costume, poco amara nel tono, ma coraggiosa nel tema trattato, contenga, a volerci guardare bene dentro (nonostante il suo clima generale bonario e ridanciano), così tanto paese e così tanto momento storico. Non solo, ma possiede anche una modernità sconvolgente: è l’ennesimo certificato di un’Italia inguaribile, maleducata, immatura e sbagliata, la solita Italia povera e furba che conosciamo.

Il vigile è una spassosa satira minore, perchè fa leva su aspetti vignettistici e su un caricaturismo pittoresco. Eppure ha avuto un parto piuttosto travagliato, con tanto di scene censurate e solo molto tempo dopo reintegrate. Due per l’esattezza, una di aspetto diciamo sociale e l’altra di aspetto diciamo sessuale: la prima è quella in cui il figlio di Sordi esclama “È un’ingiustizia!”, ma gli viene risposto che alle ingiustizie è meglio abituarsi fin da piccoli; la seconda è quella dell’apparizione di Mara Berni semi nuda e sensuale distesa sul letto, offensiva verso la morale, si pensò allora.

E qualche problema l’ha creato pure la scena del film in cui un sacerdote raccomanda il Sordi/Celletti per il posto da vigile. Pare che, interrogato sull’argomento, Giulio Andreotti, allora al ministero del Turismo e Spettacolo, rispose in questo modo: “La raccomandazione è parte integrante del ministero di un sacerdote ed io stesso confesso di aver fatto assumere molti vigili”. Beh, in quanto a risposte, il nostro Divo è sempre stato talentuoso.

Ma non c’era solo questo di scomodo nella pellicola, c’era dell’altro, c’era di più. Tanto per cominciare Il Vigile nas
ce da una storia vera, quella del vigile Melone che multò il questore Marzano per un sorpasso. In poco tempo la faccenda divenne un caso politico, e il Melone divenne per la sinistra un eroe, un esempio, uno “Zorro nazional popolare”, scrive Maurizio Porro sul Corriere della sera. Ma poco tempo dopo, un pò come continua ad accadere oggi, il settimanale di destra Lo specchio, scrisse che la sorella del vigile ribelle e fanatico faceva la vita a Milano, ed era stata schedata in questura come Marilyne.

Quella storia così puzzolente, particolare e paradigmatica, colpì molto il grande sceneggiatore Rodolfo Sonego: “Non era un eroe, questo Melone, solo un piccolo prepotentello. Ma diventava per noi una metafora universale”. Da qui parte la genesi di uno dei film più divertenti e famosi del dopoguerra italiano. Siamo all’inizio del 1960, in pieno boom economico. Il clima politico e culturale in cui prende forma Il vigile è ben espresso dalle parole di Tatti Sanguineti, che ha realizzato, con Pier Luigi Raffaelli, un bel documentario sul film. Le riportiamo dopo averle estrapolate da un articolo scritto da Maurizio Porro sempre sul Corriere della sera:

«Il vigile nasce in un momento particolare, nell’Italia democristiana di Tambroni, dello scandalo di Fiumicino che travolse il sindaco di Roma, della motorizzazione di massa e delle prime avvisaglie della dolce vita, nonché delle Olimpiadi romane del ’60. Così il ministero, per evitare riferimenti, patteggiò di chiudere un occhio a patto che il film uscisse in ritardo, nel novembre ’60. Quando il Paese aveva votato e voltato pagina. Ed era stato rimosso il segnale di divieto di sorpasso al 13° chilometro della strada che causò la lite».

C’è un grande cast, nel film. Accanto a Sordi recitano, bravissimi, De Sica, la Merlini, Mario Riva e Silva Koscina. C’è la motorizzazione di massa, con la 1100 e l’ingorgo sulla rotatoria. Ci sono due parole sul frigo e la lavatrice (sorella di Celletti), e c’è sopratutto la tv, con Il musichiere, che già era entrato nel cinema due anni prima col film Domenica è sempre domenica (Camillo Mastrocinque, 1958), che era poi la canzone che faceva da sigla al programma. C’era tutta l’Italia davanti a quella trasmissione, radunata nei bar o a casa di chi aveva già l’apparecchio, con Mario Riva conduttore che faceva 18 milioni di telespettatori. In fatto di canzoni c’è la famosa Il tuo bacio è come un Rock, cantata in tv da Silva Koscina, e poi c’è la divisa che dà “valore” all’individuo e lo rende temibile agli occhi degli altri. “Mi raccomando all’imbrunire il fanalino rosso”, e la pernacchia non gliela fanno più, anzi hanno paura, brindano alla sua carriera. E per concludere, importantissimo nel film, c’è il discorso sulla politica italiana di allora, molto simile a quella di oggi. La politica degli interessi personali, delle elezioni e dei voti: ha straripato il tTvere, “e se straripa il Tevere, il comunista gode”, dice il sindaco De Sica. E gli fa eco proprio Otello Celletti che prima di essere assunto spiega di sapere bene per chi votare: “In famiglia siamo tutti schierati da una parte, sappiamo per chi votare. Io sono sempre stato governativo, mia moglie è nel circolo femminile”. Il De Sica del film è un uomo politico pomposo pubblicamente e ben “inciarpato” nel privato. Lo stesso Celletti, appena gli capita l’occasione, si butta in politica. Coi monarchici, e senza alcun ideale, nè un minimo di preparazione, sfida, alle comunali, proprio il sindaco navigato e protetto dai palazzinari che hanno vinto appalti da sei miliardi e sanno bene come comprarsi un candidato. Non mancano tentativi di corruzione, scandali e ricatti, voti legati a piani regolatori e festini privati. Alla fine i potenti la vincono, perchè salta fuori che il cognato di Celletti fa il macellaio illegalmente, che sua sorella fa la “massaggiatrice” a Milano, che sua moglie é già sposata con un mezzo pazzo “che ha dato pure la coltellata a un pigmeo”, dice Sordi regalando l’ennesima battuta esilarante, e che il padre di Celletti, il mitico Capannelle Pisacane, sparò al Re tanti anni prima. Insomma, Otello finisce per cedere al ricatto (“che dici ama, che c’hanno ‘n castrato? O mamma mia mamma mia bella…”), e il film ci informa di una brutta storia di mala politica. Il “Lei non sa chi sono io” ha vinto e tutto è finito all’italiana. Lo pronuncia anche il sindaco. Albertone si scusa per aver fatto il suo dovere e la  pellicola divertentissima si carica di pessimismo. I potenti la spuntano sempre e i poveracci cadono, dopo aver imparato a dire “c’ho famiglia”.

Chiudiamo con altre due parole scritte da Giulio Cattivelli su “Cinema Novo”: “Il discorso è troppo serio per un film ridanciano? Non crediamo. Il vigile ci dimostra che anche la nostra produzione media, legata a schemi macchiettistici e bozzettistici, riflette un’atmosfera mutata, un risveglio polemico carico di fermenti positivi.”

Riesce oggi, la nostra commedia commerciale ad arrivare a questi livelli?

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