Udite udite: a dispetto delle apparenze e della pubblicistica diffusa, Il sospetto non è un film sulla pedofilia. O meglio, se lo è, lo è esclusivamente dal punto di vista della trama pura e semplice, che è quasi un controcampo del Festen che fu: se nella pellicola del 1998 a Thomas Vinterberg interessava la psicologia della vittima, il silenzio vergognoso e poi il coming-out esplosivo di un figlio ripetutamente violentato dal padre, qui il focus si sposta su un uomo accusato (ingiustamente) di aver abusato sessualmente di una bambina, figlia del suo migliore amico. Lui è Lucas, mite impiegato d’asilo in un paesino della Danimarca, padre affettuoso e benvoluto da tutti; il film racconta del suo incubo.

Da questo versante Il sospetto è una parabola esemplare e saldamente condotta, ma anche fin troppo lineare e qua e là deterministica, su uno dei grandi topic e delle ossessioni costitutive dei nostri anni. Il resoconto della fabbricazione di un «mostro», che cinematograficamente molto si regge sulle spalle larghe dello stupefacente Mads Mikkelsen. Valga, su questo, quanto scritto su queste pagine da Federico Vignali.

Se però si sposta un poco il punto di osservazione e si guadagna una prospettiva meno frontale, l’ultimo lavoro dell’ex «dogmatico» si rivela essere qualcosa d’altro e di più interessante: un film sulle modalità con cui una piccola comunità si tiene insieme, si rinnova nella continuità e gestisce la devianza (o presunta tale) che si manifesta al suo interno. Non a caso, in originale si chiama Jagten, che in danese vuol dire «caccia», nulla a che fare con il sospetto, e invece un richiamo esplicito alla pratica con cui i maschi della comunità locale vengono iniziati alla adultità e a cui rimangono legati per tutta la vita: quella caccia al cervo che in Cimino aveva esattamente la stessa funzione di collante identitario del clan, ostinato e disperato rituale da contrapporre alla follia del mondo a venire (il Vietnam).

La piazza giusto all’inizio, Vinterberg, la sequenza-omaggio a Il cacciatore, sfacciatamente speculare a quella del mitico film del 1978: gli uomini sono immersi nel silenzio della natura, pattugliano i boschi a caccia di cervi. Lucas ne fredda uno con abilità. La camera stringe, mentre l’animale cade al suolo in ralenti, a cogliere le emozioni del protagonista, il quale però non sembra tradirne, gelido e distaccato. Quella sera stessa, i cacciatori bevono, mangiano e ridono insieme, a celebrare nel cameratismo la battuta andata a buon fine. È una seria ipoteca su una storia che, come nel citato illustre modello, dovrà fatalmente essere segnata e risolta dalla violenza. L’innesco narrativo è costituito dall’accusa di abusi portata dalla piccola Klara, a cui tutto il paese crede, semplicemente perché «i bambini non mentono mai», incarnazioni di una purezza che è ancora al di qua dell’iniziazione. Lucas è schiacciato da una colpa che non ha commesso, ma man mano che si addentra nel suo incubo, più che affannarsi a dimostrare la propria innocenza, è disperato per la sua estromissione dalla vita comunitaria.

In questo senso la sequenza decisiva è quella del supermarket. Il protagonista viene malmenato e messo alla porta perché cliente non gradito. Potrebbe chiamare la solerte e civile polizia scandinava e far valere le sue ragioni di cittadino ma non lo fa. Risponde invece al sopruso con una testata che stende il commesso, poi con calma rientra nel supermercato e si riprende la sua spesa. Un atto di brutalità, ma non del tipo inconsulto di chi è andato fuori di testa, bensì il gesto, quasi ponderato, di chi sa che per essere reintegrato nel gruppo deve innanzitutto farsi ri-conoscere. E il ri-conoscimento, anche nella Danimarca degli asili-modello e dello stato sociale invidiabile, passa sempre per la violenza.

A Lucas non interessano i diritti derivanti dal suo status di cittadino, ma i valori connessi all’appartenenza a un’identità collettiva. Il passaggio successivo, per lui, sarà allora recarsi, contro ogni sensatezza, alla messa di Natale, uno dei momenti centrali della vita pubblica locale. Solo lì può avvenire l’agnizione della sua innocenza, e solo incontrando gli occhi del suo migliore amico, in un lungo ed epico scambio di sguardi che vale come fosse il primo. Il riconoscimento – letteralmente – è compiuto.

La chiusura del film, con un prologo ambientato alcuni mesi dopo, in una situazione di ritrovata armonia collettiva, rappresenta la chiusura del cerchio. Marcus, il figlio adolescente di Lucas, riceve la sua iniziazione, si appresta alla sua prima battuta di caccia. Tutto il paese lo festeggia. Nel segno inquietante della continuità, di una comunità che si conferma e si perpetua nel sangue.

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